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Innovazione

Think outside the Facebook

Diciamolo, l’inchiesta che il WSJ ha ribattezzato “Facebook Files” è la scoperta dell’acqua calda, tutt’al più le rivelazioni di Frances Haugen sono l’ennesima conferma di una situazione sconosciuta essenzialmente a due categorie di persone: quelle che ignorano perché non si informano e quelle che sanno, ma fingono che il problema non esista.

Ora, è del tutto evidente che in entrambi i casi si tratti di un atteggiamento autolesionistico e non certo perché l’universo mondo sia tenuto a interessarsi delle vicissitudini personali di un certo Mark Zuckerberg, ma perché si dà il caso che sulle sue piattaforme (oltre a Facebook possiede anche Instagram e WhatsApp) la quasi totalità di quelle persone abbia traslocato, digitalizzandola, buona parte della propria dimensione sociale e relazionale.

Per essere chiari, fatto salvo che quelle di cui è composta una giornata rimangono sempre 24, le ore che trascorriamo sui social vengono sottratte ad altre attività nel mondo reale: affetti, lavoro, studio, sport, passioni e perfino, pensate un po’, alla noia.

Già – lo scrivo per i lettori più giovani – dovete sapere che ai nostri tempi poteva capitare di annoiarci, magari perché mamma e papà ci avevano messi in punizione togliendoci televisione e videogame: lì per lì sembrava un dramma, al contrario era una splendida occasione per riempire quel tempo apparentemente sospeso leggendo libri o riviste che altrimenti non avremmo mai letto, giusto per fare un esempio.

Oggi quel tempo non ce l’abbiamo, per il semplice fatto che ogni nostro istante è riempito da notifiche e input perlopiù inutili che lo frammentano riducendo, inevitabilmente e sostanzialmente, la qualità di ciò che facciamo, di qualsiasi cosa si tratti.

Riflettendoci, potremmo dire che questo sistema ci condanna a un paradosso per cui viviamo la nostra esistenza lontani dal luogo – e con esso anche dalle persone che lo popolano – in cui ci troviamo veramente: siamo costretti a vivere altrove.

Ecco, se considerate che l’altrove in cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo è un luogo virtuale governato da algoritmi che decidono qualsiasi cosa debba capitarci mentre ci troviamo lì, allora credo che sia più semplice comprendere quanto la nostra esistenza sia condizionata dal signor Mark Zuckerberg.

Se, poi, consideriamo che oltre alle masse d’individui l’altrove zuckerberghiano abbia fagocitato identità digitali e investimenti pubblicitari della stragrande maggioranza di aziende e attività commerciali presenti sul globo ingoiando anche, insieme a Google, l’intero mercato che ruota attorno al sistema dell’informazione, ecco che il quadro si fa drammaticamente chiaro.

Il Metaverso, nuovo altrove di Mark

Prima di tutto una considerazione: Zuckerberg ha lanciato Meta in fretta e furia perché conta che diventi il nuovo altrove di miliardi di persone ma, prima di tutto, quello del suo business. Mi spiego. Quando – correva l’anno 2003 – lanciò Facebook, il buon Mark si era creato il suo oceano blu, ovvero aveva proposto qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che già esisteva sul mercato conquistandosi, così, l’enorme vantaggio di lavorare sostanzialmente senza competitor.

Appare chiaro che il sopravanzare degli avvenimenti descritti in questo articolo sia sintomatico del fatto che l’oceano in cui naviga Facebook si sia ormai tinto di rosso che, come spiegano W. Chan Kim e Renée Maurbogne nel loro “Strategia oceano blu”, significa che ora è popolato da una miriade di competitor che si scannano tra loro.

Da qui la necessità di correre ai ripari per conservare l’enorme vantaggio competitivo accumulato negli anni che – attenzione – più che sul fattore economico (che pure è impressionante) è fondato sui dati generosamente regalati dai quasi 3 miliardi di utenti già abituati a trascorrere buona parte della loro vita nell’altrove di Menlo Park.

Nella testa di Mark il concetto è sempre lo stesso: «la tua vita non ti soddisfa? Nella mia piattaforma potrai averne una migliore», il che sostanzialmente significa appropriarsi dell’esistenza dei propri utenti intrappolandoli in una sorta di panopticon globale ancora più totalizzante rispetto a Facebook.

In buona sostanza, così come il passaggio dal desktop al mobile ha determinato per buona parte dell’umanità l’attuale stato di connessione perenne alla Rete, l’approdo al metaverso potrebbe portare a una sorta di trasfigurazione del nostro io reale in luogo di un io digitale che dilati all’infinito l’illusione di poter essere, con un avatar, ciò che non siamo riusciti a diventare in carne e ossa.

Il Metaverso è figlio della cultura pop

Anche da questo punto di vista Zuckerberg non ha inventato un bel nulla, ma ha semplicemente sfruttato le sue illimitate possibilità economiche per creare ciò che è stato preconizzato nel ’92 da Neal Stephenson nel libro “Snow Crash”, nel quale l’autore aveva immaginato un modello di società incardinato proprio sulla realtà virtuale.

Considerate che in quegli anni eravamo veramente agli albori del Web, mentre il concetto di multimedialità faceva passi da gigante grazie alla rivoluzione digitale messa in atto dall’esplosione del fenomeno dei videogame e, successivamente, dall’enorme diffusione degli home computer.

Eppure, guardando il videoclip di una canzone magnifica come Amazing degli Aerosmith, che fu girato nel 1993, vi renderete conto di quanto già allora il concetto su cui ruota il business di Zuckerberg rappresentasse per molti una vera e propria aspirazione: trovare una scorciatoia per essere ciò che vorremmo.

Che dire, poi, di Matrix, il capolavoro cyberpunk diretto dalle sorelle Wachowski: in questo caso viene a mancare perfino la scelta, poiché l’umanità intera è inconsapevolmente costretta a vivere connessa a un software architettato affinché contenga ogni sfera dell’esistenza:

«Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.»

Infine, veniamo all’esempio in questi giorni più citato, ovvero quello di “Ready Player One”, romanzo pubblicato nel 2011 da Ernest Cline e trasposto cinematograficamente da Steven Spielberg 7 anni più tardi in una pellicola che per molti aspetti sta al nuovo altrove di Zuckerberg come un rendering sta al progetto di un architetto; basti pensare ad una frase del monologo iniziale, in cui il giovane protagonista utilizza queste parole per rappresentare se stesso, il mondo in cui vive e il conseguente ruolo di Oasis, cioè il metaverso:

«Chiamano la nostra generazione i “milioni scomparsi”: scomparsi non perché siamo andati da qualche parte. Non c’è nessun posto dove andare. Nessuno, a parte l’Oasis. È l’unico posto in cui mi sento giusto, un mondo in cui il limite della realtà è la tua immaginazione.»

Domanda retorica: vi ricorda qualcosa? Ecco, presumo che ora il quadro che ha in mente Zuckerberg cominci ad essere più chiaro. Domanda da un milione di dollari: e adesso, che succede?

Da Ready Player One a Game Over il passo è breve

Dal momento che siete arrivati fino a qui, sarete perfettamente consci del fatto che si tratta di un tema ben più vasto e complesso di come venga invece, ahìnoi, rappresentato da gran parte dei media. Il motivo è presto detto: soldi. Infatti, le industrie di comunicazione e informazione si sono lasciate fagocitare dal suddetto sistema e oggi sono entrambe schiave del Dio Click. No click, no money. Assurdo finché volete, ma è così.

A ben vedere, si tratta del medesimo principio in virtù del quale diverse multinazionali occidentali sono diventate, con il passare degli anni, totalmente dipendenti dalla Cina: mancanza di visione e propensione a pensare soltanto al risultato immediato senza sforzarsi minimamente di guardare oltre al palmo del proprio naso. Risultato: oggi sono letteralmente tenute per le palle da Pechino, così come media e industria della comunicazione lo sono dal duopolio Google-Facebook.

Inevitabile, poi, se pensiamo alle implicazioni in termini di manipolazione delle masse ed alla possibilità di determinare a piacimento l’orientamento dell’opinione pubblica su qualsivoglia argomento o leader politico, oppure alla proprietà stessa delle identità digitali di cittadini e aziende, non giungere alla conclusione che a breve il tema della Sovranità Digitale dovrà necessariamente diventare centrale nell’agenda politica dei governi di tutto il mondo, al pari del Climate Change, giusto per menzionarne uno di grande attualità.

Quel che è certo è che fino a oggi su questo tema è stata svolta un’attività a macchia di leopardo quasi sempre, cioè, determinata dall’impellere di fatti contingenti (censura, fake news, ruolo degli algoritmi, privacy, ecc) e mai in ragione di una visione d’insieme che dovrebbe tenere conto del fatto che il valore di mercato delle BigTech superi già l’intero prodotto interno lordo di molti dei paesi industrializzati tra cui, ovviamente, anche l’Italia.

Uno scenario in cui la competizione è diventata impari non soltanto per i privati, ma anche per le Nazioni; e non stiamo parlando di qualcosa di avulso dalla vita delle persone ma, al contrario, dei luoghi virtuali nei quali a maggior ragione dopo la pandemia si svolgono la maggior parte delle nostre attività quotidiane: indipendentemente dal fatto che ci troviamo a Milano, New York o Tokyo quasi tutto avviene lì, nell’altrove architettato e gestito da Zuckerberg & Co.

Volendo essere ancora più diretti, ciò significa che il CEO di una multinazionale con sede in California detiene un potere di gran lunga superiore a quello di qualsiasi capo di governo o di Stato: questa non è un’ipotesi futuribile, ma un fatto incontrovertibile.

Motivo per cui le classi dirigenti dovranno sbrigarsi se intendono correre ai ripari, anche se la sensazione è che siano ancora troppo vecchie (termine inelegante, ma sicuramente efficace) per percepire la reale portata della sfida.

Arrivati a questo punto non esagero se affermo che il passo successivo sarà giocoforza il Game Over: per le BigTech, a cominciare da un trust che le “spacchetti” ponendo fine a concentrazioni di potere abnormi come quella attuale, oppure per le Nazioni, che in mancanza di azioni decise e concrete devolveranno quel che rimane della loro sovranità al buon Mark, condannando il resto dell’umanità a vivere in un’illusione, altrove.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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