Come ho scritto in un precedente articolo, ritengo che la strada sia sempre più segnata e porti nella direzione di quello che definirei Smart journalism, ovvero un giornalismo intelligente incardinato su principi come la qualità dei contenuti e l’unicità di chi li crea.
Mi spiego. Non che ce ne fosse bisogno, ma la questione relativa al ruolo dei social riemersa prepotentemente negli ultimi giorni conferma che viviamo in un contesto nel quale l’editoria è schiacciata dalle regole imposte dal duopolio Google-Facebook, che ha sostanzialmente fagocitato gran parte degli introiti pubblicitari.
Questo ha fatto sì che il mestiere del giornalista, una volta autorevole e (giustamente) ben pagato, sia stato svilito dalla necessità di pubblicare un numero sempre maggiore di contenuti capaci di conquistare click diventando virali.
Quindi, meno tempo per scrivere e verificare le fonti e uno stato di perenne precarietà economica, salvo ovviamente le poche firme di primo piano che ancora riescono a farsi pagare profumatamente.
Nonostante questo, la maggior parte delle testate giornalistiche è in profondo rosso per quanto riguarda le pubblicazioni cartacee e in grande difficoltà a sostenere i costi dei giornali online: come si evince dai dati Agcom fondamentalmente i due colossi del Web si spartiscono gran parte del bottino e lasciano le briciole a chi fa informazione e crea contenuti. Nè più nè meno.
In quest’ottica, vedo sempre più plausibile uno scenario nel quale l’affermazione dello Smart journalism riporterà al centro della scena il principio di verticalità dell’informazione. Già, ma come?
Essere uno smart journalist significherà essenzialmente possedere tutte le skill necessarie a essere un giornalista-redazione: oltre a essere bravi a scrivere, trovare notizie e fare opinione, sarà necessario saper realizzare immagini e se necessario post-produrle, girare e montare video, fare un podcast o una diretta, gestire il proprio sito web e lavorare sul personal branding presidiando media e social.
Professionisti di questo tipo potranno investire pubblicando unicamente sui propri canali personali e guadagnare vendendo spazi pubblicitari, contenuti pubbliredazionali e scegliendo di riunirsi con altri smart journalist in siti web che non saranno più giornali online come li conosciamo ora, ma aggregatori di contenuti la cui proprietà rimarrà a chi li ha scritti.
Per intenderci io pubblicherò un articolo sul mio sito web e in automatico andrà anche sull’homepage dell’aggregatore a cui ho aderito: in questo modo ai contenuti sarà garantita una maggiore diffusione e, conseguentemente, allo smart journalist guadagni più alti.
Ovviamente in misura direttamente proporzionale all’interesse che i miei contenuti saranno capaci di creare e alla mia capacità di fidelizzare i follower vendendo abbonamenti, newsletter o contenuti su misura.
In questo modo lo smart journalist sarà imprenditore di se stesso e i guadagni verranno redistribuiti bypassando i costi ormai insostenibili dell’editoria tradizionale e cominciando quantomeno a erodere la quota di mercato delle Big Tech.
Uno scenario che sostanzialmente produrrebbe due vantaggi: liberare i giornalisti dai condizionamenti che derivano da precarietà economica e interessi degli editori e, al contempo, offrire agli utenti contenuti on-demand qualitativamente alti e pienamente rispondenti alle sue aspettative in termini di opinione, interessi e gusti personali.