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Il vero dilemma

Il 9 settembre scorso su Netflix è uscito The Social Dilemma, che il regista statunitense Jeff Orlowski ha imperniato sull’influenza che i social network esercitano su qualsiasi nostra decisione. La merce siamo noi, insomma. Argomento perlopiù scomodo ma comunque ampiamente approfondito da svariati esperti in tutto il mondo, a cui dedicai la terza parte del mio penultimo libro (Orwell, 2018, pp. 326) che non a caso ho intitolai “La verità è una bugia”.

Il 9 settembre scorso su Netflix è uscito The Social Dilemma, che il regista statunitense Jeff Orlowski ha imperniato sull’influenza che i social network esercitano su qualsiasi nostra decisione. La merce siamo noi, insomma. Argomento perlopiù scomodo ma comunque ampiamente approfondito da svariati esperti in tutto il mondo, a cui dedicai la terza parte del mio penultimo libro (Orwell, 2018, pp. 326) che non a caso intitolai “La verità è una bugia”.

Intendiamoci, il “docu-dramma” (così è definito su Netflix, ndr) è fatto molto bene e ha il merito di riportare al centro del dibattito un tema centrale a tal punto da travalicare i confini della privacy, ma è al contempo fuorviante poiché omette volutamente parti di verità imprescindibili per fornirci un quadro completo e oggettivo del contesto in cui, chi più chi meno, tutti noi viviamo.

Ergo, si comporta esattamente come gli algoritmi contro cui punta il dito.

Buoni e cattivi

Partiamo dalla politica: la morale del Social Dilemma è che l’intero sistema della profilazione degli utenti e delle cosiddette “bolle” dentro alle quali troviamo soltanto chi la pensa come noi sia appannaggio delle forze politiche di stampo “populista”, proponendo una narrazione in cui sembra quasi che gli altri leader e partiti politici non ne facciano uso.

È evidente che le cose non stanno così, basti pensare alla vittoria di Obama nel 2008, proprio grazie alla prima campagna in cui il Web fu pienamente decisivo sia per raccogliere fondi (circa 430 milioni di dollari raccolti solo online dal suo comitato) sia per prendere voti, peraltro facendo leva proprio sulla profilazione degli utenti.

Pensate che per la sua campagna furono spedite la bellezza di 1 miliardo di email, grazie alle quali i consulenti di Obama riuscirono a profilare scientificamente circa 13 milioni di elettori americani. Parliamo di 12 anni fa, eppure non mi pare che nessuno allora gridò allo scandalo né tanto meno che oggi l’ex presidente dem sia citato per aver “sfruttato” il Web al fine di conquistare consenso.

Già da questa prima omissione si evince che l’intenzione del film sia quella di dare vita a una rappresentazione che, dicendo chiaramente chi veste i panni dei cattivi, lascia anche intendere chi sono i buoni.

Ecco come stanno davvero le cose

Dopo la politica procediamo verso il secondo grande assente, ovvero i media mainstream. Per poterci approcciare correttamente all’argomento occorre prima di tutto spiegare il contesto e, successivamente, il ruolo giocato da ognuno dei protagonisti che ne fanno parte. Motivo per cui trovo utile sottoporvi un brano del mio libro che ho citato in apertura:

Più tempo trascorriamo sul Web e maggiori sono le possibilità che acquistiamo i beni e i servizi che ci vengono proposti. Per questo all’inizio dicevo che la merce siamo noi e la nostra attenzione, poiché catturandola possono rivenderla per indurci ad acquistare.

Va da sé che, per tenerci incollati ai monitor dei nostri computer e ai display dei nostri smartphone, i colossi del Web hanno bisogno di contenuti. Per questo motivo, tutti i dati raccolti su di noi vengono utilizzati, oltre che per inviarci pubblicità, per governare il flusso delle notizie mediante l’uso di algoritmi il cui compito è quello di frammentare i singoli utenti in gruppi composti da persone che la pensano allo stesso modo.

Come detto nel capitolo 7, il concetto è che connettendoci a persone con cui andiamo d’accordo, saremo stimolati a trascorrere sempre più tempo online e, di conseguenza, diventeremo utenti sempre più appetibili per gli inserzionisti. Sono sicuro che risulti sempre più chiaro anche a voi che le notizie, vere o false che siano, sono la benzina di cui questo meccanismo non può fare a meno: più leggiamo, più guardiamo video, più ascoltiamo musica, più ci indigniamo, più ridiamo, più intratteniamo rapporti e più loro guadagnano.

Dal momento che Facebook e Google di fatto hanno il monopolio della pubblicità digitale, dettano le regole a chi fa informazione, che può scegliere soltanto tra adeguarsi al nuovo campo di gioco oppure morire. Nel mezzo ci siamo noi, costantemente bombardati da miliardi di informazioni, il più delle volte inutili, che vengono create secondo le regole che ho cercato di descrivervi nelle pagine precedenti, e che sono parte di un disegno in cui non importa se una notizia sia vera o falsa, ma che sia capace di catturare la nostra attenzione.

Il processo è irreversibile e, anzi, è destinato ad avere un impatto sempre maggiore sulle nostre esistenze. Tra non molto i passi da gigante compiuti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale entreranno a far parte del nostro quotidiano, portandoci indubbi benefici, ma anche contribuendo ulteriormente a quel processo di profilazione a cui siamo già tutti sottoposti.

Il dato certo è che il Web ha cambiato il mondo dell’informazione e, con essa, la nostra percezione della realtà. Per un attimo proviamo a pensare a quanto già oggi incide il Web sulle nostre vite: dalle opinioni che abbiamo maturato, agli acquisti che abbiamo fatto, ai luoghi in cui abbiamo viaggiato, alla nostra produttività sul lavoro fino ad arrivare ai nostri rapporti personali.

Se è vero che i vantaggi sono tanti, non possiamo affermare con certezza che nel computo complessivo il saldo sia effettivamente attivo. In fin dei conti la nostra vita è ciò a cui abbiamo prestato attenzione, e in questo preciso momento storico rischiamo di vivere un’esistenza non pienamente nostra, o comunque influenzata da chi mira a catturare la nostra attenzione esponendoci all’onda d’urto di un flusso di informazioni che si basa sempre meno sui fatti concreti, e sempre di più su ciò che è potenzialmente in grado di suscitare clamore.

Pseudoambienti che generano azioni reali, ricordate? Dico questo non per spaventarvi, ma per tentare d’aiutarvi a comprendere come quello delle fake news, così come viene raccontato dai più, sia un falso argomento o, per meglio dire, quella parte di realtà funzionale alla versione che vogliono darci a bere.

Per quanto mi è dato a sapere, anche e soprattutto in virtù di ciò che ho imparato durante l’esperienza in cui ho scelto di essere io stesso un fake, se vogliamo farci gli anticorpi a quella che potrebbe diventare una vera e propria schiavitù, dobbiamo anzitutto riappropriarci della nostra attenzione e indirizzarla a ciò che veramente conta, dagli affetti al lavoro, fino ad arrivare alla nostra voglia di essere informati e, magari, dare il nostro contributo a una causa in cui crediamo.

Impariamo ad approfondire le notizie, non fermandoci ai titoli come spesso capita, ma magari dedicando il tempo che avremmo speso a scorrere meccanicamente la nostra bacheca di Facebook per approvvigionarci da più fonti, comprese quelle che fino a quel momento abbiamo ritenuto meno affini con il nostro modo di vedere le cose.

Riappropriamoci del nostro tempo e della libertà di farci un’opinione, perché altrimenti saremo destinati a orientare le nostre azioni in base a opinioni di altri che, come se non bastasse, il più delle volte vengono spacciate per fatti con l’unico obiettivo di raggiungere un fine. Noi.

Written By

è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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