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Doping

INCHIESTA: alla ricerca della verità sul doping nello sport (1)

Provette, flaconi, analisi e controanalisi, campioni finiti nella rete della positività a sostanze vietate, trasfusioni, cocktail di farmaci e polemiche, tante polemiche.
Sono queste, in fondo, le principali parole chiave che girano intorno al mondo del doping e dell’antidoping.
Si tratta di un conflitto che, quotidianamente, vede schierati due eserciti contrapposti e molto diversi tra loro.

Da un lato il bene (come vedremo non privo di contraddizioni), incardinato sull’attività d’istituzioni dedite alla prevenzione e al controllo degli atleti (in Italia Ministero della Salute, Coni, federazioni, ente di accreditamento e laboratorio d’analisi accreditato ndr) e, dall’altro, il male, fondato sulla condotta illecita allo scopo di sfruttare il trucco e il raggiro come metodo di successo.

Pratica, per intenderci, che disinvolti medici, in collaborazione con allenatori e atleti, utilizzano al fine di migliorare le prestazioni degli sportivi grazie alla somministrazione di sostanze vietate.
Eppure, cosa sappiamo realmente di questo mondo? In verità, poco. Solo accenni sfumati oppure imprecisi.

Tuttavia, alcune domande dovrebbero nascere spontanee. Per esempio: chi prescrive i controlli? Con quali modalità? Dove si eseguono le analisi? Che protocolli seguono i laboratori? Che strumenti usano? Come sono individuati? Come funziona il sistema d’accreditamento? Qual è, oggi, la fotografia generale evidenziata dagli ultimi report pubblicati dalla Wada (World Anti-Doping Agency ndr) e dall’Istituto Superiore di Sanità? Quali sono stati i casi di positività che, nel nostro Paese, hanno destato più scalpore?

Orwell.live ha deciso di inoltrarsi negli spazi “velati” delle gare, quelli meno conosciuti e lontani dagli occhi degli appassionati, per percorrere, accompagnati da una fonte che ha chiesto l’anonimato, tragitti e luoghi del mondo dello sport, sconosciuti ai più.

Ci addentreremo, dunque, nelle sale prelievo e nei laboratori d’analisi. Spiegheremo l’importanza di una corretta compilazione dei verbali (soprattutto a garanzia dell’atleta) e cos’è una “catena di custodia”.
Non solo. Faremo chiarezza sui numeri grazie ai report pubblicati da Wada e Iss, racconteremo i principali cambiamenti nel mondo dell’antidoping dalla fine degli anni ’90 ad oggi e proveremo, infine, a strappare qualche sorriso raccontando le più fantasiose linee di difesa escogitate dagli atleti risultati positivi ai controlli.

LE CIFRE: PIÙ CONTROLLI, MENO CASI

Iniziamo il nostro cammino nel mondo dell’antidoping dalla fotografia statistica generale tratteggiata nel documento “2017 Anti-Doping Testing Figures”, pubblicato dalla Wada.

A destare interesse è innanzitutto il dato che riguarda l’aumento del numero complessivo di campioni analizzati nel mondo, passati da 300.565 nel 2016 a 322.050 nel 2017, con un incremento complessivo del 7,1%. Questo risultato è frutto dell’aumento del numero dei controlli e delle analisi prodotte da quasi l’80% dei laboratori accreditati Wada.

Non meno importante va considerata la diminuzione degli Adverse Analytical Finding (Aaf, si registra quando il campione analizzato presenta tracce di sostanze proibite ndr) pari all’1,60% dei campioni esaminati nel 2016 (4.822 Aaf da 300.565 campioni), contro l’1,43% registrato nel 2017 (4.596 Aaf da 322.050 campioni).

Secondo Wada si tratta di una circostanza da ricondurre essenzialmente al fatto che il Meldonium, un anti ischemico di produzione lettone creato per uso militare (rimedio che aumenterebbe sia la forza sia la resistenza alla fatica) è uscito dalla lista delle sostanze vietate.

Per capirci, stiamo parlando del farmaco che, nel 2016, ha causato alla tennista Maria Sharapova una squalifica di 15 mesi.
Un aumento complessivo dei campioni testati (+3%) si registra pure alla voce Abp (Athlete Biological Passport, ovverosia, quella sorta di archivio dati relativi a un atleta raccolti nel tempo, allo scopo di far emergere difformità nel profilo biologico dello sportivo controllato, ndr), passati da 28.173 nel 2016 a 29.130 nel 2017.

Per quanto riguarda, invece, le sostanze dopanti maggiormente utilizzate, il primo posto del podio è largamente occupato dagli anabolizzanti (44% dei casi – testosterone e analoghi), che distanziano nettamente gli stimolanti (per esempio, efedrina, cocaina, amfetamina).

IN ITALIA: POCHI CONTROLLI E SOLO IN GARA

In Italia, la relazione “Reporting System – Doping, Antidoping 2018”, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità, ci dà l’opportunità di focalizzare l’attenzione sulla situazione del doping nel nostro Paese.

Una piccola premessa: la Sezione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive del comitato tecnico sanitario (Svd) del Ministero della Salute è stata istituita in attuazione dell’art. 3 comma 1 della legge 376/2000.
La Svd è una delle strutture che programma annualmente controlli antidoping (insieme a Wada, Coni, Federazioni nazionali e internazionali) anche con il supporto del Comando Carabinieri per la tutela della salute (Nas) che collabora all’individuazione preliminare di gare e atleti “con elevati profili di rischio”, selezionati attraverso attività informative e operative svolte e raccolte sul territorio.

Nelle 70 pagine di cui si compone il documento, compare subito un passaggio illuminante: nel 2018 sono stati predisposti e programmati 141 controlli durante manifestazioni sportive, ma nemmeno uno “fuori gara” (per esempio, presso le strutture d’allenamento).
Una condizione che potrebbe aver involontariamente favorito qualche furbetto della pasticca, più incline a attendere test prima di una manifestazione ufficiale, piuttosto che al campo di allenamento oppure al proprio domicilio.

Gli atleti complessivamente coinvolti dal prelievo antidoping ammontano a 594, di cui 388 maschi (65,3%), e 206 femmine (34,7%), con un’età media di 25,7 anni (26,3 i maschi e 24,7 le femmine).
Il 21,5% (128) degli atleti sottoposti a controllo antidoping dalla Svd, sono stati esaminati su richiesta specifica dei Nas.
Tra i 594 atleti analizzati, 13 sono risultati positivi ai controlli antidoping (2,2%).
Il report, soprattutto, evidenzia un aspetto rispetto a quanto registrato negli anni precedenti: nel 2018, non è stata rilevata, infatti, nessuna significativa differenza di genere tra gli atleti risultati positivi: si osserva che la percentuale di positività è pari al 2,3% per gli uomini e all’1,9% per le donne.
Una significativa differenza di genere emerge, invece, se osserviamo l’età media degli atleti risultati positivi: 27,5 anni per gli uomini e 42,2 per le donne.
Prendendo in esame i risultati delle analisi di laboratorio riguardanti i 128 atleti controllati, su disposizione dei Nas, si rileva che 4 atleti sono risultati positivi a una o più sostanze vietate per doping (3,1%).

Durante i 16 anni di attività antidoping della Svd gli atleti controllati sono stati 20.294 (13.706 maschi e 6.588 femmine) con un’età media di 27,4 anni. Di questi, 610 (518 maschi e 92 femmine, il 3% del campione esaminato), sono risultati positivi ad una o più sostanze vietate. Nel corso del 2018 si è registrato il più basso numero di atleti sottoposti a controllo antidoping (594) da quando nel 2003 è iniziata l’attività della Svd.

La fredda realtà dei numeri italiani suggerisce però spunti interessanti e anche alcuni approfondimenti.

C’È QUALCOSA CHE NON CONVINCE

Osservazioni che potremmo facilmente trasformare in domande: perché, contrariamente a quanto emerso dal report Wada, la Svd dimezza i controlli nel biennio 2017-18 e, soprattutto, non si preoccupa di organizzare controlli a sorpresa (in assoluto i più efficaci) in netta controtendenza rispetto all’evoluzione del mondo antidoping?
Perché, diversamente dallo scopo iniziale (illustrato nella legge 376 2000) nel report pare prevalere un “passo” più lento nella lotta al doping se confrontato col documento pubblicato dalla Wada?

Per quale motivo una Commissione così importante, collegata al Ministero della Salute, che si presenta come struttura super partes, con il duplice obiettivo di controllare l’operato del laboratorio italiano accreditato (Fmsi di Roma, Federazione medico-sportiva italiana ndr), ma anche di combattere e prevenire il fenomeno doping tra i più giovani, rallenta la propria azione di contrasto nei confronti dei furbetti del farmaco?
La netta flessione va addebitata ai costi economici delle analisi (un controllo base urinario si attesta sui 300€ ndr), oppure si tratta di un’azione che, nel tempo, ha perso di produttività?

Anche i numeri proposti non convincono fino in fondo.
Per esempio, nella tabella che presenta l’elenco delle “Sostanze vietate per doping e frequenze registrate”, al primo posto troviamo i cannabinoidi, ma questi ultimi, però, non sono delle sostanze dopanti in senso stretto.

Un anabolizzante oppure uno stimolante sono sostanze dopanti in quanto chiaramente in grado di aumentare la prestazione sportiva.
Il cannabinoide andrebbe considerato più come una droga ricreativa, il cui abuso va inquadrato in un contesto sociale. In sede di analisi, correttamente, i laboratori stabiliscono se la concentrazione di Thc è superiore a quella consentita dal regolamento Wada, ma si tratta di una soglia massima identificata per definire la differenza esistente tra fumo “attivo” e “passivo”. Crea, insomma, un discrimine alla volontarietà.
Semplificando, la concentrazione massima di Thc serve per stabilire se la presenza di cannabinoidi nel materiale biologico sia imputabile a un’assunzione volontaria oppure indiretta da parte dello sportivo.

Eppure, anche se la concentrazione fosse superiore al consentito, sarebbe scorretto definirla un’attività illecita da parte dell’atleta. Infatti, cos’è una sostanza dopante? Tutto ciò che è in grado di alterare in senso positivo la performance dello sportivo.
Il cannabinoide non ha questo tipo di caratteristiche. È presente nell’elenco delle sostanze vietate perché, trattandosi di sostanza psico-attiva, viola i principi di etico-sportivi introdotti dalla Wada: in sintesi, un atleta non si deve drogare.

Un discorso simile può valere, per esempio, per i farmaci analoghi del cortisone (glucocorticoidi ndr), vietati solo in competizione come i cannabinoidi e solo se assunti per via orale, endovenosa e intramuscolare, ma non attraverso pomate oppure (è il caso degli asmatici) utilizzando un inalatore spray.
Anche in questo caso la discriminante è la soglia di concentrazione della sostanza trovata nelle urine.
Nonostante ciò, il cortisone non può essere considerato un dopante, ma semplicemente un antinfiammatorio.
Eppure per la Wada, anche in questo caso, una concentrazione eccessiva di corticosteroide corrisponde a una violazione di quei principi etici dello sport che si fondano su una semplice considerazione: giochi, o partecipi a una competizione, solo se stai bene perché nulla deve mettere in pericolo la salute dell’atleta.

Ecco spiegato perché il primo posto assegnato ai cannabinoidi tra le sostanze illecite più utilizzate in Italia non ha molto senso dal punto di vista dell’importanza del fenomeno.

Con questa “fotografia generale” ha inizio la nostra inchiesta. Nella prossima puntata vi spiegheremo come avvengono i controlli durante le competizioni, chi è autorizzato al prelievo di materiale biologico, l’importanza della compilazione dei verbali e cos’è una “catena di custodia”.

(1 – Continua)

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