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Comunicazione

Politainment, la spettacolarizzazione della politica

Secondo il dizionario “Oxford languages” il termine politainment indica un genere di programmi televisivi in cui temi politici si alternano con l’intrattenimento leggero. Ma è molto più di questo.

Ideato dal professor David Schultz nei primi anni Duemila, il politainment racconta di una storia presente già da tempo, che con l’avvento del nuovo millennio, si fa marketing.

Questo concetto va infatti a indicare un duplice fenomeno:

  • L’incrociarsi di realtà politica e industria dell’intrattenimento caratterizzati dai politici nei programmi di varietà
  • La trasformazione dei temi e attori politici in prodotti (output) riconducibili ai format della cultura popolare

La varietà dei temi e delle caratteristiche in cui questo fenomeno si palesa, ha delle specificità che variano in base al paese e al periodo storico considerato.

Negli Stati Uniti infatti, il politainment è diffuso da ben prima degli anni Duemila, caratterizzandosi come punto focale della politica americana sin dagli albori del XX secolo; la “personalizzazione” di quest’ultima è infatti un processo che preannuncia il marketing della politica stessa.

Queste origini prendono spunto dalla storia dei presidenti degli Stati Uniti, da sempre epicentro del potere nella politica oltreoceano.

Il primo a fare uso della sua personalità per creare attorno a sé “consuetudine” e “assenso” fu Frank Delano Roosevelt che con i suoi discorsi del caminetto, creò un’affiliazione con la propria audience.

Analizzando le modalità della creazione di questo rapporto, possiamo notare un elemento fondamentale; non è basilare rientrare in un prototipo definito, ma essere in grado di crearne uno che rispecchi i bisogni della popolazione e dei cittadini in quel determinato momento storico. Roosevelt infatti, seppe rispecchiare il bisogno di sicurezza e familiarità di cui aveva bisogno l’America durante la Seconda Guerra Mondiale.

La persona si fece quindi personaggio.

Continuando la nostra indagine sui presidenti americani possiamo individuare altre figure particolaristiche; Dwight D. Eisenhower e John Fitzgerald Kennedy. Il primo si insediò nel periodo del “Maccartismo” risalente all’inizio degli anni ’50, periodo in cui vi furono crescenti paure di influenze comuniste sulle istituzioni statunitensi.

La figura di Eisenhower risultò perfetta per questo contesto riuscendo a rappresentare un ex veterano di guerra solido e robusto, in grado di rassicurare la popolazione durante un periodo di crisi diffusa.

Arriviamo poi a Kennedy, figura tra le più dibattute e più sfaccettate della presidenza americana.

Egli rispecchia in tutto e per tutto la realizzazione dell’“american dream”; figlio di emigrati cattolici irlandesi, Kennedy è l’archetipo dell’uomo che si è creato da solo, il “self made man”, che partendo da una famiglia appartenente a una minoranza, è comunque riuscito a giungere alla presidenza. La sua figura, si sposò perfettamente con la società degli anni ’60, anni di fermento culturale e sociale che presagivano un’emancipazione verso le discriminazioni presenti in America.

Kennedy si schierò a favore di una maggiore apertura sociale e pagò con la vita questa scelta. Il suo mito però non si ferma solo alle sue battaglie ideologiche, ma anche al suo fascino. La sua prestanza fisica e le sue avventure “pop” lo resero famoso nel jazz set, facendolo diventare il presidente-divo. Sotto il suo governo infatti, il mito di Hollywood esplose in tutta la sua potenza e lanciò un trend che continuò per tutto il decennio seguente.

Tra i presidenti delle ultime decadi del XX secolo troviamo senz’altro figure più convenzionali.

Tra questi non rientra però Ronald Reagan. Presidente persuasivo dalla fama di gran comunicatore, fu in grado di affascinare il proprio pubblico risultando un’”oratore di altri tempi”. Ex attore cinematografico ed ex governatore della California, passò dal partito democratico a quello repubblicano, divenendo esponente di spicco di quest’ultimo. La forza di Reagan infatti fu accentuare la caratteristica del partito repubblicano come partito conservatore in grado di “raccogliere” un’ampia fetta della propria audience, inaugurando una vera e propria fase di liberalizzazione dei mercati a discapito della riduzione della spesa sociale, il cosiddetto “Reaganismo”. Questa politica si impose come vera e propria dottrina negli anni ’80, palesandosi come un processo necessario che ebbe anche in Gran Bretagna, un prorompente esponente, Margaret Thatcher.

La libertà del mercato rimane tutt’oggi negli USA, un vero e proprio dictat.

Prima di giungere alle elezioni del 2020, facciamo però un breve approfondimento su quelle del 2008, anno della vittoria di Barack Obama.

Egli fu il primo presidente di origine afroamericane salito al potere dopo una delle più grandi crisi economiche (almeno finora) mai viste nella storia degli Stati Uniti. Obama seppe farsi promotore di un’idea di cambiamento, inclusione e “apertura” verso il suo stesso popolo. Questa forte simbologia lo fece rieleggere per un secondo mandato nel 2012. Al grido di “Yes we can” non seppe solo smuovere gli animi della popolazione afroamericana, ma di tutte quelle minoranze che negli Stati Uniti non riuscivano a trovare voce.

Come ogni presidente però, Obama disattese in parte il suo elettorato e alle elezioni del 2016, il potere tornò in mano ai repubblicani con Donald Trump.

Trump, icona della ricchezza, del populismo, dell’esagerazione, ha saputo tramite un fortissimo processo di politainment, impressionare il suo elettorato. Questa sua forza si denota anche nelle elezioni del 2020, nonostante la vittoria del suo avversario Biden.

In queste elezioni ci rendiamo conto della forza comunicativa di ambo gli schieramenti e di quanto l’audience sia effettivamente influenzabile e cangiante rispetto agli eventi e ai personaggi.

Assistiamo finalmente al politainment nella sua chiave più moderna, quella espressa tramite i social media e i mezzi di comunicazione più avanzati. Sono proprio questi infatti a fare la differenza tra una comunicazione raggiungibile e una comunicazione “immediata”.

Analizziamo quindi i due sfidanti.

Da un lato abbiamo Trump, come precedentemente sottolineato, personaggio estroso, particolare, eccentrico; ha saputo coinvolgere il suo pubblico anche in queste elezioni, rimanendo coerente con il suo personaggio di “maschio alfa”. Figura che riuscì nelle elezioni del 2016 e in quest’ultime, ad attrarre un preciso prototipo di elettore; uomo appartenente alla classe medio-bassa, bianco e principalmente del Sud. Trump seppe però estendere questa categoria anche a molti magnati a lui fedeli delle grandi città.

Dall’altro lato Biden, detto anche “Sleepy Joe” ha saputo portare avanti uno sradicamento della politica omofoba e sessista del governo Trump, puntando su tematiche sociali piuttosto che economiche.

La crisi da Coronavirus si è rivelata infatti fallimentare per il governo Trump, che ha continuato a tutelare l’economia del paese a discapito della salute delle persone. Il 2020 è stato infatti l’anno in cui le contraddizioni di questo grande paese si sono rese più evidenti all’occhio della comunità internazionale.

Biden ha spinto proprio su queste differenze, su questa mancanza di eguaglianza e reale opportunità che rende gli Stati Uniti una delle terre con le più grandi possibilità di realizzazione ma anche con le più basse. Dopo una campagna mediatica molto forte e molto differente da quella degli aggressivi tweet del suo sfidante Trump, Biden ha saputo scegliere una squadra “al passo con i tempi” che dimostrasse la sua differenza dal rivale. Con l’avvento della presidenza Biden infatti, una donna, talaltro asioamericana, è riuscita finalmente a ricoprire la carica di vicepresidente degli Stati Uniti. Kamala Harris è senz’altro una donna dalle grandi competenze e dalla particolare tenacia, ma è stata anche un segnale mediatico forte verso gli elettori e il mondo in generale.

Se vogliamo invece guardare alla politica nazionale, scopriremo che in Italia il politainement ha una storia molto più recente.

Essa nasce infatti con l’ascesa di Silvio Berlusconi e il suo uso politico delle reti Mediaset che dopo anni di sostanziale monopartitismo della Democrazia Cristiana, prefigurò una “rivoluzione dei costumi”. Rivoluzione che comporterà l’ingresso in Parlamento di politici “nuovi” e “popolari” come Bossi della Lega, fino ad arrivare a Di Maio dei Cinque stelle. I Cinque stelle sono infatti il partito che maggiormente ha beneficiato dell’uso dei social media per la sua campagna elettorale grazie anche all’istituzione di una specifica piattaforma, Rousseau.

L’uso di Instagram, Facebook e Twitter ha reso quindi anche nel “bel paese” l’utilizzo dei social media “centrale” per la diffusione e la propagazione di idee politiche e sociali.

I politici di oggi si possono quindi facilmente definire dei “politainer”, ossia personaggi che non solo propongono idee ma che sono capaci di “intrattenere” la propria audience tramite i media.

Le regole di marketing di cui quindi oggi i politici fanno costantemente uso si possono così sintetizzare:

  • L’individuazione di una propria audience caratterizzata da proprie istanze e proprie preferenze
  • La concentrazione sulla determinata audience individuata
  • L’”umanizzazione” del personaggio politico, la possibilità di rendersi “accessibile” al pubblico individuato tramite l’interazione nei social media
  • Il completo abbandono di atteggiamenti da “burocrate” a favore di una forma più “pop”
  • L’affidamento della propria immagine ad un team di esperti (social media manager)
  • La presenza costante nei media anche dopo l’elezione

La rivoluzione del politainment ha quindi accorciato le distanze della politica, rendendola un argomento più fruibile e più accattivante, ma rendendo allo stesso tempo più fittizi determinati giochi di potere.

Come ogni processo, ha i suoi aspetti positivi e negativi; sta a noi saperne fare uso e poter abbracciare una rivoluzione ormai avviata ed incontenibile.

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