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Cultura

L’arte vive a New York

Laura Mega nasce a Roma e, dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti, vince una borsa di studio per frequentare l’UI – Università dell’Immagine di Fabrizio Ferri a Milano. Conclusi gli studi si trasferisce a New York dove espone in diverse gallerie tra cui Ivy Brown Gallery, M55 Art, Resobox Gallery.

 

Perché la scelta di trasferirti negli USA?

Non credo la mia sia stata una vera e propria scelta, ho sempre avuto il sogno di New York, quell’idea di posto magico dove tutto è possibile e dove la diversità viene considerata dono, non handicap. A dieci anni avevo le pareti della mia stanza con sopra disegnati a matita King Kong, l’Empire State Building e la Statua della Libertà. A sedici anni il mio primo viaggio a New York dove ho avuto l’impressione che quella città fosse li per me da sempre, le vacanze si sono trasformate in permanenze mensili e, poi, la decisione di trasferirmi definitivamente. Diciamo che NYC mi ha dato la possibilità di esternare liberamente la creatività che portavo dentro, a volte, l’Italia è meno generosa. In questa America dove nulla è dovuto o regalato ma devi lavorare sodo e dimostrare di esserne all’altezza, ciò che ti viene dato ti viene anche tolto.

 

Ci sono progetti a cui stai lavorando attualmente di cui vorresti raccontarci qualcosa?

Attualmente sto preparando un lavoro per una residenza/atelier che si terrà a luglio all’interno del museo MACRO dal titolo I’MPOSSIBLE (“Nulla è impossibile, la parola stessa dice I’M POSSIBLE” come diceva Audrey Hepburn). Si tratta di un lavoro che indaga sulle fughe possibili e non, quando siamo noi stessi a negarci la fuga, fisica o mentale che sia, intrappolati nelle proprie paure. Grazie a una nuova visione di Museo, partorita dal direttore del MACRO, Giorgio De Finis, produrrò arte all’interno di un cubo di vetro per la durata di una settimana, dove al visitatore è permesso osservare e interagire con l’artista.

 

Cos’è che t’ispira maggiormente?

Attingo ispirazione da tutto quello che mi circonda, a volte sono lavori dal forte messaggio politico e sociale, visti, ovviamente, attraverso il mio sguardo. Sono attratta dai freaks, siamo tutti diversi e speciali nelle nostre imperfezioni. Fenomeni da baraccone per alcuni, preziose creature agli occhi di altri. Non è la nostra diversità a dividerci ma l’incapacità di riconoscerla, accettarla e celebrarla.

 

C’è un’opera di cui vai particolarmente fiera?

Più che fiera ci sono lavori a cui sono particolarmente affezionata perché legati a momenti importanti della mia vita. In particolare, un tessuto ricamato da mia madre quando era giovane su cui ho disegnato un uomo con la testa a cuore e stampato sopra BLOOD iS THiCKER THAN TEARS.

 

 

Riesci a dare una definizione del tuo stile?

In verità non saprei, mi è capitato di vedere in arte, design e fashion rappresentazioni di figure per metà umane e metà altro ma non riesco ancora a collocarmi. Forse è semplicemente il mio stile, cosa che non mi dispiace, in quanto mi permette di essere riconoscibile. Ognuno di noi nasce con il proprio tormento interiore destinato a forme di comunicazione diverse. Mi piace però che la mia arte abbia quella leggerezza ironica che camuffa un messaggio meno giocoso offrendo una doppia lettura.

 

C’è un artista che ha particolarmente ispirato la tua arte?

Sicuramente ci sono artisti che hanno contribuito alla mia visione e percezione dell’arte. Diane Arbus che fotografava gli emarginati, Fellini e il mondo che portava dentro di se, Andy Warhol e la sua Factory e Basquiat. Può sembrare una cosa bizzarra ma spesso mi è capitato di disegnare vicino alla lapide di Basquiat che si trova in un bellissimo cimitero gotico a Brooklyn (Green-Wood Cemetery). Più che un cimitero è un immenso parco labirintico dove perdersi è facilissimo.

 

Cosa ti ha spinto e ti spinge a utilizzare questa tecnica e questi colori?

Come supporto uso lenzuola prese dal mio corredo o da quello di altre donne. Ho sempre trovato il corredo nuziale affascinante, eppure è un’usanza mortificante per la donna. Il mio corredo, ricamato e preparato con cura da mia nonna e da mia madre mi ha fatto riflettere. L’importanza di un tesoro pieno di lenzuola, federe, asciugamani, camicie da notte come se una donna fosse nata per essere moglie e non per essere, semplicemente, donna. Allo stesso tempo questo rito al femminile, la storia e il peso, la tradizione tutto questo racchiuso nel tessuto. La mia arte è intima e femminile. Femminile perché, oltre al supporto di tessuto, utilizzo ceretta epilatoria di colore rosa che sciolgo sopra i miei personaggi. La ceretta epilatoria rappresenta la fragilità e il dolore che le donne devono sopportare come peso della loro femminilità. Infine, lettere stampate individualmente creando parole come espressione del mio pensiero e delle mie emozioni.

 

Quanto è difficile essere un’artista, oggi?

Sicuramente essere artista in Italia è più difficile visto che l’arte qui è considerata hobby e non un vero lavoro. È più facile avere riconoscimenti all’estero, comunque riuscire a vivere di arte è un’impresa da supereroi. Credo che oggi si sia perso un po’ l’interesse nell’arte, quello che si cerca ora è banalmente del colore appeso al muro che possa abbellire il proprio salotto.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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