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POLITICA USA

Su Trump i media italiani ci sono o ci fanno?

Partiamo da un presupposto: Donald Trump aveva più chance di vittoria a febbraio rispetto ad oggi. Il Presidente è in netta difficoltà e non servono i sondaggi per capirlo. Eppure, nuovamente, ci troviamo davanti a cartine e sondaggi che respirano di 2016.

La mappa elettorale pubblicata sul Corriere che disegna l’attuale stato dell’arte negli Stati Uniti è basata su quella del famoso sito americano RealClearPolitics. La particolarità di questo sito è semplice: le loro cartine non dicono niente e disegnano incertezza. Piuttosto RCP ha un qualcosa che aiuta a capire meglio il quadro delle prossime presidenziali, ossia le medie sondaggi. Purtroppo è stata utilizzata la prima e non le seconde.

Non è opportuno, dunque, definire “ingannevole” la cartina ma, bensì, non rappresentativa appieno del reale stato delle cose negli Usa.

Per spiegare meglio la situazione, però, occorre tornare indietro di quattro anni.

Gli errori dei vari istituti sono sotto gli occhi di tutti, specialmente per gli errori nei cosiddetti swing states. Non riproporremo la grafica del 98.1% di possibilità di vittoria della Clinton pubblicata dall’HuffPost il 7 novembre 2016 ma, invece, quella del 70% di chance dell’ex senatrice prodotta da Nate Silver su FiveThirtyEight. Perché? Semplice. È l’unica che disegna il quadro poi divenuto reale: e, cioè, quello del 30% di possibilità che aveva Trump di vincere la Casa Bianca.

Se prendiamo come margine d’errore il 3% del campione, possiamo vedere come alcuni sondaggi di allora – Michigan e Wisconsin – siano stati poi ribaltati. In Michigan, ad esempio, la Clinton era avanti di 3.4 punti per RCP e 6.2 per Politico, mentre in Wisconsin era avanti di 6.5 per RCP e 6.2 per Politico. La lista può essere arricchita ancora: Pennsylvania +4.2 per Politico. Alla fine, l’8 novembre, Trump ha vinto questi stati per pochissimi voti: Michigan +0.2% (circa 11mila voti), Pennsylvania +0.7% (circa 44mila voti), Wisconsin +0.7% (circa 23mila voti).

In questo modo si intuisce anche il perché RealClear sia così tanto scrupolosa nel colorare le cartine.

Veniamo al 2020. A quattro mesi dalle elezioni è difficile trovare un sondaggio che dia qualche chance a Trump. Ciò su sui ci si dovrebbe concentrare, piuttosto che sui sondaggi, è l’indice di popolarità di Trump. Questo, incontrovertibile. Da Lyndon Johnson a Barack Obama, a quattro mesi dalla rielezione, solo due Presidenti erano messi peggio rispetto a Trump: George H. W. Bush (-2.0%, elezione a tre nel 1992, fattore non di poco conto) e Jimmy Carter (-10.6%). Ambedue hanno perso la rielezione. Prendiamo come paragone, per un esempio pratico, Barack Obama. Trump ha un tasso d’approvazione del 40.5%, Obama in questo momento aveva 16.5 punti in più e, come è noto, non ha avuto una rielezione trionfale contro Mitt Romney. Tutti i Presidenti poi rieletti, da Johnson a Obama, avevano dunque tassi più alti rispetto a quelli di Trump.

Questo è il dato. Un dato che ci dice incontrovertibilmente che Trump dovrà sorprenderci molto più di quanto ha fatto nel 2016.

E oggi? Oggi gli swing states sono di più e le sfide sono ancora più indecifrabili, considerato che alla Presidenza si accompagnano, proprio in alcuni di questi stati, le sfide al Senato.

Arizona, Florida, Georgia, Iowa, Michigan, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, Texas e Wisconsin. Dodici stati ai quali dobbiamo aggiungere due Electoral Votes in Nebraska e Maine che hanno un sistema proporzionale. Si parla, esattamente, di 191 Grandi Elettori in palio. Molti che si sono candidati per questa carica, 191 Grandi Elettori, non li hanno mai conquistati. Andando ad analizzare più nello specifico la cartina, però, non sorprende solo il grigio – che non dice niente, anzi, aumenta solo i dubbi – di tutti questi stati ma, anche, che alcuni colorati non abbiano un rosso o un blu acceso. Vedere il South Carolina di un rosso più chiaro rispetto al Montana fa impressione. O, per spostarci sul blu, stessa cosa si può dire dell’Oregon che viene messo sullo stesso piano del Minnesota.

Sostanzialmente non esisterebbe più una identità politica nella stragrande maggioranza degli Stati.

Perché fa dunque impressione? Semplice. Il South Carolina è uno degli Stati più conservatori e si voterà anche per il Senato, dove l’uscente Lindsey Graham vincerà nuovamente, nonostante la sua impopolarità. Stessa cosa, con ogni probabilità, si può dire per Mitch McConnell in Kentucky (almeno lì siamo tutti d’accordo che sarà Trump a vincere). Inoltre, il South Carolina non vota democratico alla Casa Bianca dal 1976.

Forse un tantino troppo sbiadirla, che dite? In Montana, molti lo dimenticano, si voterà anche per il Senato con Steve Bullock, attuale governatore democratico, che è testa a testa con il repubblicano Steve Daines. È più probabile, dunque, che sia il Montana – vittoria di Trump a novembre quasi scontata – rispetto alla Carolina del Sud a cedere qualche voto ai democratici, grazia al traino del Senato chiaramente. E, il discorso del Senato, vale anche in alcuni swing states, come a breve vedremo.

Passiamo all’Oregon. I vicini della California votano convintamente democratico dal 1988. L’ultimo repubblicano a trionfare, portandosi a casa tutta la costa, fu Ronald Reagan nell’84. Anche qui, quel celeste utilizzato è troppo forzato. Soprattutto se paragonato al Minnesota che sta cambiando geografia politico-elettorale.

Eccoci, finalmente, ai tanto vituperati swing states, quelli che decideranno chi giurerà il 20 gennaio 2021. In otto Stati su dodici si voterà per il Senato e, di queste otto sfide, alcune potranno sicuramente influenzare la sfida per la Casa Bianca. Prendiamone due che non sono così famose: Iowa e Maine. In Iowa, ad oggi, non esiste un solo sondaggio che veda Trump sotto Biden (+1 la media di RCP). Joni Ernst, attuale senatrice repubblicana in carica, però, non avrà vita facile contro Theresa Greenfield.

In Maine, al contrario, essendo il sistema proporzionale, è probabile che uno dei quattro EV finisca a Trump – altrimenti finirebbero tutti a Biden – mentre l’uscente repubblicana al Senato Susan Collins non avrà più le sue vittorie schiaccianti e, per via dei troppi voti espressi a favore del Presidente, parte sfavorita contro lo sfidante democratico (con tutta probabilità sarà Sara Gideon, Speaker of the Maine House of Representatives). Più in generale, sono almeno sei le sfide da tenere d’occhio. Oltre alle già citate Iowa e Maine, abbiamo anche: Arizona, Colorado, Montana (come anticipato) e North Carolina.

Dei citati stati, spostando la stima da RCP a FiveThirtyEight, solo quattro – Georgia, Iowa, Ohio e Texas – sono nel margine d’errore. Ciò vorrebbe dire che 111 EV finirebbero a Biden, mentre solo 80 a Trump. Risultato? 333 Biden (3 EV del Maine), 205 Trump (con Georgia, Iowa, Ohio e Texas al GOP, insieme a tutti e 5 i Grandi Elettori del Nebraska e 1 Grande Elettore del Maine).

In ogni caso, questo quadro, sarebbe la cronaca di una disfatta.

Tiriamo, dunque, una somma: è impossibile dire come finirà a novembre ma è palese che il Presidente è in difficoltà. Trump può provare a descrivere ciò che è stato in ambito economico fino a prima della pandemia, perché senza la stessa sarebbe stato il suo punto forte. Trump deve vincere in degli stati che ha conquistato nel 2016 – Ohio, Florida, Iowa, North Carolina, Georgia (obbligatoriamente) – e tentare di mantenere quelli che sono realmente in bilico – Arizona e Wisconsin (vinti nel 2016) – se vuole avere chance concrete. E, comunque, sarebbe una vittoria risicata. Una vittoria – 270 GOP, 268 DEM – in bilico fino alle prime luci dell’alba.

Tuttavia, al 3 novembre mancano quattro mesi esatti. In questi mesi può accadere di tutto e la politica cambia velocemente e, insieme ad essa, anche i sondaggi.

Partiamo dunque da uno stato di fatto: un Presidente in carica ha sempre più chance del rivale. Altri Presidenti in carica con indici di popolarità peggiori di Trump hanno perso. E, soprattutto, la possibilità di un ritiro di Trump non regge. È vero, alcuni repubblicani hanno affermato di essere «preoccupati» per lo stato delle cose e per la difficoltà incontrata da Trump contro «l’uomo nello stanzino (Biden, ndr)» ma, la differenza, sta proprio qui.

Novembre è lontano e oggi, ogni chiacchiera sulle presidenziali, è troppo lontana da ciò che sarà e che, per fortuna, possiamo solo vivere.

Che poi, non si sa mai, dovesse finire come nel 2016, come la mettiamo?

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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