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Interviste

Alessandro Campi presenta il libro “Dopo”: «Torneremo agli Stati nazionali»

Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia e direttore responsabile del trimestrale Rivista di Politica, Alessandro Campi è tra gli intellettuali che nel corso degli ultimi 20 anni hanno disegnato i contorni dell’area politica della destra nazionale, coniugandoli al presente e al futuro. Oggi, nel mezzo di questa confusa “Fase 2”, ha curato – per l’Editore Rubbettino e con il sostegno della Banca Intesa Sanpaolo – un volume conenente una serie di riflessioni su quel che accadrà nel post-Covid chiamandolo, appunto, Dopo. Libro che potrete scaricare del tutto gratuitamente a questo link e che presenteremo alle 17:00 di oggi in diretta sulla nostra pagina Facebook e di cui riproporremo il video integrale qui su Orwell.live.

Prof. Campi, veniamo da 70 giorni di lockdown, ai rappresentanti di molte categorie che non hanno ricevuto aiuti è vietato manifestare e si profila una crisi profondissima: la tenuta democratica dell’Italia è a rischio?

La democrazia forse no, ma di sicuro è a rischio la tenuta sociale. Oltre gli effetti economici negativi, soprattutto per le categorie che non svolgono lavori “protetti” (come nel caso dei cosiddetti “statali”), ci sono da considerare anche le ricadute di questo prolungato “confinamento  domestico” a livello di psicologia, individuale e collettiva. L’isolamento coatto è stato snervante per milioni di individui. C’è stato un accumulo di paura, frustrazione, risentimento  e rabbia che a sua volta peserà moltissimo ai fini della ripresa. Lo percepiamo tutti in questi primi giorni di parziale ritorno alla normalità: intorno a noi si registra non solo euforia, ma anche molto nervosismo misto a preoccupazione per il futuro.

E’ un clima sociale negativo che non sarà facile gestire e che naturalmente avrà effetti anche sul piano politico. L’attuale governo, vista la sua composizione interna, non mi sembra in grado di mandare agli italiani un messaggio che sia per davvero rassicurante.

Per tornare alla questione della democrazia, andrei oltre l’Italia: è nel mondo intero che, in occasione di questa pandemia, si sono registrati processi di concentrazione del potere (soprattutto nelle mani dei cosiddetti “esperti”) che, se al momento non prefigurano un particolare rischio, in prospettiva potrebbero rivelarsi minacciosi per le nostre libertà. Inutile nascondersi dietro un dito: questa crisi ha mostrato chiaramente quanto le masse (mi si lasci usare questo termine ottocentesco) siano ben disposte a barattare la propria sicurezza in cambio della propria libertà se la posta in gioco è, per così dire, la propria vita: hobbesismo alla stato puro. La disciplina sociale attraverso la tecnologia consente anche a governi mediocri (e a leader altrettanto mediocre) di godere di una legittimità enorme, ma solo in considerazione dello stato di pericolo che essi, compresi i vantaggi che possono derivare per chi governa da tale situazione, hanno tutto l’interesse a prolungare. Per il futuro c’è dunque bisogno di operare un’accorta sorveglianza: una qualche forma di “totalitarismo dolce” non è dietro l’angolo ma è una possibilità reale.

Il Conte Bis è il 66mo governo in 73 anni: il nostro è un sistema basato sugli accordi al ribasso che partorisce maggioranze prive della struttura politica necessaria per fare riforme come presidenzialismo e superamento del bicameralismo perfetto. Come se ne esce?

Certo questa pandemia non rappresenta la condizione migliore per mettersi a parlare nuovamente di riforme costituzionali o di modifiche al nostro sistema politico. L’Italia ha perso il treno delle riforme, che pure sarebbero fondamentali, come questa crisi ha platealmente mostrato. Abbiamo un sistema istituzionale-burocratico a dir poco obsoleto: basta guardare con quale ritardo e con quale lentezza si è mossa la macchina pubblica, il cui tasso di informatizzazione è a dir poco antidiluviano.

Abbiamo tra l’altro toccato con mano quanto le poche riforme fatte in passato, sotto l’impulso politico del momento e senza alcuna visione strategica, abbiano mal funzionato: mi riferisco alle competenze crescenti concesse alle Regioni a partire dal 2001 nel nome di uno pseudo-federalismo rivelatosi pericoloso non tanto per l’unità nazionale (qualcuno potrebbe dire che quest’ultima è una preferenza valoriale non condivisa da parecchi italiani), quanto per la vita stessa dei cittadini (basti il riferimento al funzionamento a macchia di leopardo della sanità, che forse è una cosa che interessa tutti).

Lo scontro permanente tra Stato e Regioni, tra livello centrale e autonomie, il protagonismo di cui hanno dato prova molto Governatori in contrapposizione palese con il Governo nazionale, per non parlare del fenomeno patetico dei “Sindaci-sceriffo”, è la dimostrazione di quanto una certa stagione del regionalismo (e dell’autonomismo), pensata più di settanta anni fa e messa in opera esattamente mezzo secolo fa, andrebbe ripensata profondamente.

La crisi che stiamo vivendo potrebbe essere in effetti una buona scusa per mettere mano ad un riassetto profondo del nostro apparato istituzionale. Ma ciò dovrebbe avvenire sulla base di un disegno di ingegneria costituzionale, dunque di una visione del futuro, che questa classe politica semplicemente non è in grado di esprimere. Rischieremmo l’ennesima “riforma” a pezzi e bocconi: meglio dunque lasciare le cose come stanno. Meglio i difetti di oggi, che i guasti ancora più grandi che potrebbe essere fatti per il domani.

Nel libro parla di deglobalizzazione, un sostanziale ritorno ai particolarismi nazionali. Cina, USA ed Europa: come dovremo collocarci dal punto di vista internazionale?

Il ritorno in auge degli Stati nazionali, al di là delle retorica sullo spirito di cooperazione che dovrebbe guidare il mondo, mi sembra evidente. In questi mesi di crisi, il silenzio e l’inazione dei grandi organismi internazionali di regolazione sono stati clamorosi. L’Onu si è limitato a dichiarare un “cessate il fuoco” planetario quando già la pandemia s’era estesa a mezzo pianeta (peraltro le armi non hanno smesso di sparare in molte parti del mondo). L’Organizzazione  mondiale della sanità ha dichiarato che si fosse dinnanzi ad una pandemia quando anche i bambini avevano compreso quel che stava accadendo. E in ogni caso non è riuscita a prendere nelle proprie mani la gestioni sanitaria dell’emergenza (anche solo a livello di indicazione statistiche).

Ogni Stato ha fatto da Sé: nella prima fase non ci si è nemmeno scambiati le informazioni sanitarie utili ad ognuno per organizzare al meglio le cure e la gestione dei malati. Non dimentichiamo (fatto a dir poco increscioso!) i sequestri di materiali sanitario alle frontiere operati da praticamente tutti gli Stati quando si è capito che a tutti servivano mascherine e respiratori (le politiche di aiuti sbandierate sui giornali sono state pura propaganda spacciata per spirito umanitario: spero nessun voglia prendere sul serio l’arrivo in Italia di pochi medici cubani o albanesi). Ma questo ha riguardato la fase iniziale (quella più caotica) dell’emergenza.

Il problema è quello che potrebbe accadere nel futuro nei rapporti internazionali. La mia idea è che, non avendo mai creduto del tutto alla fine degli Stati come attori sovrani, si possa assistere ad una rinnovata corsa per la potenza in cui la parte del leone toccherebbe ovviamente, ai grandi players internazionali, a partire dalla Cina e dagli Stati Uniti, con tutti gli altri Stati che dovranno decidere da che parte stare.

Ormai si parla di una nuova “Guerra fredda” che peraltro era nell’aria già prima di questa crisi: i due colossi era già in lotta aperta l’uno contro l’altro sul terreno economico-commerciale e tecnologico. In questo quadro, il problema è capire se l’Europa riuscirà a muoversi come un soggetto unitario. Le divisioni di cui ha dato prova nei primi frangenti dell’emergenza sono state a dir poco preoccupanti. Così come, nelle settimane successive, quando si è trattato di decidere sulle politiche di sostegno finanziario  indirizzate verso gli Stati membri, è parso preoccupante il ritorno del vecchio duopolio franco-tedesco sotto forma di governo occulto dell’Unione.

Anche nel caso dell’Europa, ogni singolo Paese rischia di andare per conto, in particolare sul terreno delle alleanze internazionali. Il che, nel caso dell’Italia, genera non pochi allarmi visto che abbiamo al governo ministri che guardano con simpatia alle autocrazia di mezzo mondo: quelle avanzate sul modello cinese e quelle sgangherate sul modello venezuelano.

La pandemia ci ha fatto scoprire il digitale con due decenni di ritardo e la politica ha ormai da tempo traslocato online, almeno in termini di propaganda. Crede che potranno prendere piede forme serie di democrazia digitale?

Il bagno di tecnologia che abbiamo fatto in questi mesi è stato, per certi versi, salutare e ha dimostrato, ancora una volta, quanto fossimo in ritardo rispetto, non al futuro, ma al presente. Avevamo a disposizione una tecnologia che semplicemente non usavamo (passare le giornate e scrivere post su Facebook  o a mettere le proprie foto in costume sui social non è propriamente indicativo di una cultura digitale di massa!).

E dunque ben vengano la didattica a distanza per milioni di ragazzi delle scuole di ogni livello, il lavoro a domicilio per milioni di impiegati del settore pubblico e privato, il numero sconfinato di ore trascorse su Zoom e sulle altre piattaforme (che pochissimi usavano sino al giorno prima) per fare pilates, per parlare con amici e parenti o per partecipare a incontri culturali.

Il problema è che tutto questo è stato fatto in condizioni di stress sociale e senza alcuna pianificazione. Quella che noi professori abbiamo fatto, per capirci, non è stata didattica on line, ma didattica d’emergenza: abbiamo parlato dinnanzi ad una videocamera non potendo avere di fronte i nostri studenti.

La didattica on line non la fa lo strumento, ma i contenuti che attraverso di esso vengono diffusi e che nel nostro caso sono stati quelli di sempre, per nulla innovativi. Insomma, da qui a sfruttare le moderne tecnologie comunicative sul piano della formazione e dell’insegnamento ce ne corre. Occorre una programmazione che ancora è tutta da fare.

Lo stesso può dirsi per lo smart working. Abbiamo capito che, per certi mansioni, si può anche lavorare da casa. Ma anche in questo caso, se si vuole sfruttare questa potenzialità, bisogna procedere ad una riorganizzazione complessiva del mercato del lavoro e delle sue regole, ad una riorganizzazione del lavoro in sé, tenendo conto che milioni di persone che, potenzialmente, stanno a casa, invece che andare in ufficio, significa anche dover riorganizzare il nostro modello sociale e tutta l’attuale struttura dei servizi, per non dire dell’urbanistica e dell’assetto stesso delle nostre case (se devo lavorare casa non posso certo pensare di utilizzare un computer sul tavolo da cucina). Anche in questo caso, parliamo di una visione del futuro, e di una capacità a progettarlo, che mi chiedo quanti abbiano a livello politico.

Brexit e la vittoria di Trump hanno certificato lo scollamento tra soggetti politici che a vario titolo vengono identificati con l’establishment e ampi strati dell’opinione pubblica, un fenomeno destinato ad essere acuito dalla crisi post-covid. Come ritiene che debba evolversi l’area politica oggi conosciuta come “sovranista”?

Il paradosso è che, grazie a questa crisi, l’establishment politico esce al tempo stesso distrutto e rafforzato. I politici al governo hanno dato quasi tutti pessima prova di sé. Si sono lasciati prendere del tutto alla sprovvista da un evento sì eccezionale ma in qualche modo prevedibile e comunque largamente annunciato (bastava aver visto qualche film). Scoppiata la crisi, si sono messi nelle mani dei tecnici (anche a giustificazione della propria difficoltà a prendere decisioni) oppure, se qualcosa hanno deciso, lo hanno fatto in maniera del tutto occasionalistica e contradditoria, in alcuni casi al limite dell’irresponsabilità (senza scomodare il caso estremo del “negazionista” Bolsonaro in Brasile, pensiamo solo al tira e molla di Boris Johnson in Gran Bretagna o di Macron in Francia o  dello stesso Conte in Italia).

Ma nonostante ciò l’opinione pubblica è stata, per così dire, costretta a fidarsi dei rispettivi governi e governanti, sino ad accettare senza battere ciglio tutte le misure di restrizione che sono state loro imposte. Si è concessa ubbidienza cieca, per paura, a persone di cui probabilmente non si aveva alcuna stima. Il problema è quello che potrebbe accadere nel prossimo futuro. Molti leader populisti (penso in primis a Trump) oggi sono essi stessi forza di governo: difficile dare la colpa agli altri se le cose dovessero andare male, soprattutto sul terreno economico. A meno di non risvegliare i fantasmi del cospirazionismo, cosa che personalmente mi aspetto.

Già immagino i grillini (cioè i populisti anti-establishment nostrani) prendersela con le banche e gli speculatori per giustificare ciò che, essendo forza di governo, non saranno riusciti a fare. Trump dirà che la colpa è tutta dei cinesi. In Europa si darà la colpa delle restrizioni economiche all’egoismo della Germania.

Sarà tutto un fiorire di accuse e contro accuse, di false notizie, di fantasie complottiste che alla fine potrebbe favorire nuovi leader più arrabbiati, demagoghi ed estremisti di quanto non lo siano stati quelli populisti del recente passato.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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