Non è la prima volta: era già capitato a luglio e ottobre del 2016. Chelsea Manning, la fonte di WikiLeaks utilizzata da Julian Assange per divulgare sulla sua piattaforma migliaia di cablo riservati della diplomazia americana, ha tentato nuovamente il suicidio.
Lo conferma lo sceriffo di Alexandria, Dana Lawhorne: «C’è stato un incidente oggi alle 12,11 circa presso il centro di detenzione per adulti di Alexandria che ha coinvolto la detenuta Chelsea Manning. È stato gestito in modo appropriato dal nostro personale professionale e la signora Manning è al sicuro».
Manning, è protagonista di un’odissea carceraria infinita.
Una persecuzione iniziata nel maggio del 2010, in una piccola cella in Kuwait e proseguita per sette anni, tra abusi e crudeltà al limite della tortura, nella base militare di Quantico in Virginia (dove era stata condannata, a 35 anni di carcere, per la sua collaborazione con WikiLeaks).
La scarcerazione avvenuta nel maggio del 2017, per volontà del presidente Obama, sembrava la fine del calvario per l’ex analista d’intelligence, ma il rifiuto di testimoniare di fronte al grand jury – che indaga sul caso WikiLeaks -, ha riaperto per Manning (maggio 2019) le porte della prigione.
Come dichiarato dai suoi avvocati «Manning ha precedentemente indicato che non tradirà i suoi principi, anche a rischio di subire gravi danni. Nonostante le sanzioni – che finora hanno incluso oltre un anno di carcere e quasi mezzo milione di dollari di multa – rimane incrollabile nel suo rifiuto di partecipare a un processo a porte chiuse che considera ad alto rischio di abuso».
La storia di Chelsea Manning è raccolta qui nello speciale che il nostro giornale ha dedicato a WikiLeaks.