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POLITICA USA

United we stand, divided we fall

Quando gli Stati Uniti erano poco più di un sogno, uno dei padri fondatori, John Dickinson, nella sua canzone The Liberty Song, inserì queste sei parole: «united we stand, divided we fall». Nell’idea originaria di America voluta dai Padri Fondatori, non dovevano esserci partiti politici. Hamilton e Madison li criticarono, perché avrebbero portato solo divisione. Eppure, già nelle elezioni del 1796, furono due i partiti a contendersi la presidenza.
La storia insegna che mai come ora ci sia una lacerazione nel Paese e una polarizzazione del voto su posizioni opposte. La tanto vituperata via media è stata quasi abbandonata.

Iniziamo dal SOTU. È esistito un solo momento realmente bipartisan, quando Donald Trump si è rivolto a Juan Guaidò con queste parole: «è la libertà che unifica le anime (,,,) porti questo messaggio al suo Paese!». Certo, ci sono stati anche altri applausi da parte dei democratici, ma erano di circostanza. In tutto il resto del discorso, i membri del DP sono rimasti a osservare, senza battere ciglio.

Il mondo intero ha visto Trump non porgere la mano a Nancy Pelosi. Sempre il mondo intero ha visto l’irrispettoso gesto della Pelosi quando ha strappato il discorso di Trump. Era palesemente nervosa, Nancy Pelosi. Il motivo? Il voto sull’impeachment.

Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, in pochissimo tempo ha condotto il processo – grazie alla guida sapiente targata John G. Roberts – verso un verdetto scontato: not guilty! Ci sono state solo due sorprese, le uniche che hanno reso divertente il voto. La prima riguarda il mai allineato senatore della West Virginia Joe Manchin, che ha votato per condannare il Presidente. Lui che, in tutte le votazioni tenute al Senato ha sempre votato con i repubblicani e che, durante il Discorso sullo Stato dell’Unione, era seduto con i colleghi del GOP, ha ritenuto guilty il Presidente. Forse il senatore avrà pensato che piuttosto che correre per il suo seggio per la terza volta, a 77 anni (nel 2024), sarà meglio andare in pensione.

La seconda sorpresa si chiama Mitt Romney. L’ex candidato presidente nel 2012, alle 20 ora italiana del 5 febbraio, ha rilasciato una dichiarazione nella quale ha affermato che avrebbe votato per condannare il Presidente. Qui, però, sorge il controsenso del paradosso che Romney rappresenta. Primo voto, abuso di potere: Romney vota guilty. Finisce con 52 voti a favore dell’assoluzione e 48 a favore della condanna. Secondo voto, accusa di ostruzione al Congresso: Romney vota not guilty. Finisce 53 a 47. Saranno forse venuti i sensi di colpa al senatore dello Utah? Non lo sapremo mai.

Infine, l’Iowa. Alla fine (non definitiva…) con il 100% dei voti scrutinati, è un testa a testa fra Buttigieg e Sanders. Una differenza dello 0.1%, 1.515 voti di scarto. Il Partito Democratico dell’Iowa si è prima dimenticato di rilasciare i dati dei satellite caucus, ovvero i voti di chi, non essendo fisicamente presente nel territorio dello Stato, ha votato fuori dallo stesso. In ogni caso, in questi caucus, Bernie Sanders va fortissimo. Poi ha ammesso uno sbaglio nell’assegnazione dei delegati (nella giornata di ieri anche un comunicato ufficiale riportava la notizia di delegati assegnati a Deval Patrick, quando in realtà erano di Bernie Sanders), riaprendo la partita. Infine, per non farsi mancare nulla, sotto spinta del Chair del DNC, Tom Perez, è iniziato il riconteggio dei voti. È, dunque, impossibile dire chi abbia vinto, nonostante la doppia rivendicazione di Buttigieg prima e di Sanders poi.

Ora vi chiederete cosa abbiano in comune questi argomenti, in parte collegati, in parte no, con la frase utilizzata come titolo.

La lacerazione che polarizza il voto americano non è solo fra i due grandi partiti. È, più nello specifico, all’interno degli stessi. Un senatore che vota contro il suo Presidente per pura vendetta personale, un partito che – nell’alveo dei dubbi che faranno parlare per mesi – non riesce, dopo oltre 72 ore dall’inizio dei caucus, a consegnare i risultati definitivi.

C’è sempre stato chi ha sostenuto che la democrazia multipartitica, di fatto, non esistita negli States e sia, in realtà, presente grazie alla pluralità e alla diversità di anime all’interno dei partiti. Esiste anche chi, invece, ha dichiarato la morte della democrazia proprio per l’esistenza di due soli partiti.

«United we stand, divided we fall» rappresenta ciò che gli Stati Uniti sono adesso: una nazione divisa, con dei partiti divisi al loro interno e con una guerra reciproca senza esclusione di colpi, incapace di unirsi all’interno dei partiti che la rappresentano agli occhi dei cittadini e del mondo.

A distanza di quasi quattro anni, questa è la spiegazione della vittoria di Donald Trump. Nessuno lo ha mai voluto ammettere. Trump ha vinto perché ha capito che il Paese lacerato, spaccato, diviso, polarizzato, aveva bisogno di una persona come lui. “Un uomo solo al comando”, così è stato definito. Certo, Trump non è esattamente quell’uomo virtuoso che i Fondatori immaginavano per gli Stati Uniti ma, nella lungimiranza della Costituente, gli uomini come Trump servono lo stesso il loro Paese, non i loro interessi personali.

Questo nel 2016 i democratici non lo hanno capito, candidando Hillary Clinton. Se le primarie dovesse vincerle Joe Biden, probabilmente avverrà altrettanto.

«Four more years», lo dice Donald Trump e lo ripetono i suoi sostenitori. La grande paura dei democratici si sta concretizzando: è così che riconsegneranno la Casa Bianca a Trump: per troppa paura. E, ancora, la teoria dell’esecutivo unitario, il processo più inutile degli ultimi 230 anni di storia americana. Tutto questo è il fallimento del sogno americano. Gli Stati Uniti hanno raggiunto le stelle agendo da uomini, lottando per il giusto e per motivi morali.

Quando George W. Bush vinse ufficialmente la Florida dopo la sentenza della Corte Suprema, disse: «non sono stato eletto per servire un partito. Sono stato eletto per servire una nazione». Sembrava quello il momento di massima spaccatura nel Paese. Oggi è il 6 febbraio 2020 e in tre giorni abbiamo avuto la prova che in vent’anni la situazione è mutata completamente.

Tre eventi in tre giorni consecutivi ci hanno dimostrato come la peggiore spaccatura che si cela nell’animo umano possa decidere il destino di una nazione.

Questo è il quadro impietoso che, oggi, gli Stati Uniti d’America rappresentano. E Donald John Trump, dallo Stato di New York, in questa situazione ci sguazza come un savoiardo nel tiramisù.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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