Che le nostre informazioni condivise sui social, cercate in rete o lasciate sullo smartphone, non siano al sicuro ormai è noto (all’argomento abbiamo dedicato molti articoli). Che, però, si potessero controllare (e sapere) i movimenti del presidente americano attraverso un semplice smartphone… questo nessuno se lo sarebbe aspettato.
A rivelare il fatto è stato il New York Times che, attraverso la localizzazione di un dispositivo appartenente a un agente del servizio di sicurezza, ha ricostruito gli spostamenti di Donald Trump nel giorno del suo incontro con il premier giapponese, Shinzo Abe. Seguendo i tragitti dell’agente e confrontandoli con i dati di cronaca, i giornalisti del New York Times sono riusciti a ricostruire l’intera giornata del presidente americano, anche nei passaggi “non ufficiali”: dalla mattinata passata a giocare a golf con Abe in un residence in Florida, al pranzo privato con i capi di Stato e di governo di altri Paesi, fino alla cena riservata e “segreta”.
Sul sito del quotidiano è stata postata la mappa dettagliata degli spostamenti, con dei puntini verdi per indicare i luoghi raggiunti.
Si tratta di una dimostrazione di quanto tutti noi siano diventati, identificati, riconosciuti, tracciati, spiati e quindi vulnerabili. Semplicemente utilizzando le applicazioni che già si trovano sugli smatphone o sui tablet, noi concediamo a soggetti privati il diritto di sorvegliarci e registrare ogni nostra attività. Con le informazioni raccolte su di noi, poi, possono farci ciò che vogliono.
Come abbiamo scritto altre volte, spesso le violazioni della privacy vengono fatte per migliorare le analisi “di mercato” e, quindi, proporre pubblicità più mirata. Però, qualora finissero nelle mani di malintenzionati, i rischi potrebbero essere più grandi.
Il senso dell’inchiesta del New York Times è stato proprio questo. Tutto, infatti, è partito quando un impiegato che lavora in una delle multinazionali tecnologiche ha contattato il quotidiano spiegando la situazione. Per ottenere il numero dell’agente, i giornalisti del New York Times hanno avuto acceso da una banca-dati contenente 50 miliardi di informazioni sull’attività di 12 milioni di cittadini statunitensi, relative a un intervallo di pochi mesi, tra il 2016 e il 2017.
In questo modo, il New York Times è riuscito a svelare anche altri retroscena. Dalla partecipazione di un funzionario del Ministero della difesa a una manifestazione contro Trump (a cui era presente anche la moglie), a quelli di un dirigente della Corte Suprema fino alle abitudini di due agenti del Pentagono.
Ormai la violazione della privacy rappresenta una questione conosciuta, dibattuta ma ancora totalmente sottovalutata. Se, da un lato, tante realtà (compreso il nostro giornale) si stanno battendo contro lo strapotere dei giganti del web e contro l’uso sconsiderato della tecnologia, ogni giorno emergono nuovi software che consento di violare i nostri dati sensibili.
Sotto il profilo normativo negli Stati Uniti ancora non si è fatto nulla per contrastare il fenomeno. Diversa la situazione in Europa dove le cause contro le multinazionali del web e dei social hanno raggiunto le aule di giustizia. Almeno questo è un punto da cui partire per far valere i nostri diritti nel mondo digitale.