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Dieci domande

Irene Elisei: «La dignità di una notizia va ben oltre il numero di lettori che raggiungerà»

Marchigiana di Recanati (il “natio borgo selvaggio” di Giacomo Leopardi), Irene arriva a Milano per inseguire il sogno del giornalismo. Ancora prima di laurearsi in Lettere Moderne all’Università Cattolica inizia a lavorare a Class Cnbc, dove impara il mestiere e si appassiona all’economia. Oggi è uno dei volti più amati della testata: conduce “Caffè Affari” dalle 7 del mattino, oltre ad altri programmi del canale. Per anni, su Skytg24 e Tgcom24, ha raccontato le principali notizie finanziarie e aggiornato sull’andamento quotidiano dei mercati. Ha seguito come inviata alcuni degli eventi cardine del mondo economico-finanziario del nostro Paese e intervistato i principali manager e amministratori di banche e aziende italiane ed estere. Trovate suoi articoli e interviste anche su Milano Finanza.

Ormai, scrivere un articolo giornalistico significa, spesso, dover trovare qualcosa che, non solo possa essere interessante per il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questo, a suo avviso, limita o esalta lacapacità di scelta del giornalista?

«Significa anzitutto lavoro in più. Non credo che limiti o esalti in modo assoluto il nostro lavoro, di certo lo complica. Quello che si cerca di fare oggi è essere attraenti perché il lettore che abbiamo davanti è cambiato, direi che è meno “educato”. Secondo una indagine dell’Ocse, pubblicata qualche giorno fa, solo 1 studente su 20 sa distinguere tra un fatto e un’opinione. Questa è una sfida per noi giornalisti.
“Dare un’informazione corretta” è il mio mantra da sempre. La dignità di una notizia va ben oltre il numero di lettori che raggiungerò, certo, ma è giusto interrogarsi e fare propri strumenti nuovi».

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

 «Il metodo è dettato dall’oggetto. I social network hanno capito prima dei grandi editori che alla maggioranza dei lettori/utenti bastano un link e qualche riga da leggere perché hanno poco tempo e ancor meno attenzione. Hanno fatto bene, dal canto loro. Questo però rischia di dare “l’illusione della conoscenza, che è cosa ancor più grave dell’ignoranza”, come diceva Stephen Hawking. Le slow news sono allora una boccata d’ossigeno per quella fetta di persone che desidera approfondire: permettono di rallentare. Per questo io le preferisco».

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno “fake news” vada ben oltre le classiche bufale e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

«L’approfondimento. Anche noi giornalisti siamo bombardati da numerosissime informazioni da elaborare in pochissimo tempo e rischiamo di perderci».

In Italia così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

«Nel giornalismo la parola “popolarità” fa rima con “autorevolezza”. Di Oriana Fallaci o Indro Montanelli si poteva dire, leggendo i loro articoli, di una volontà sottesa a collaborare al bene comune. Che uno fosse d’accordo o meno con le loro posizioni, si poteva dire: “questi due hanno a cuore il bene comune”. Oggi è come se chi ci legge non percepisse come obiettivo del lavoro giornalistico l’amore per quella verità sostanziale dei fatti che è alla base della nostra deontologia, ma sentisse predominante l’approssimazione».

Al di là di quello che ritiene qualche politico, ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismonon sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso, tutto italiano, di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigentepossa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei – costruire una nuova e autentica connessione trapopolo e classi dirigenti?

«Trovo un grande valore nella sussidiarietà. Forze politiche agli antipodi, pubblico e privato, associazioni e partiti hanno spesso dialogato su temi trasversali partendo da questo principio. L’informazione da parte sua deve fare uno sforzo: valorizzare gli accenti positivi che si trovano nella politica, come nel lavoro e nel quotidiano tutto. Perché informare adeguatamente ha una conseguenza – non diretta – che è l’educazione. Io credo fermamente nella frase di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo. Di certo non lo farà la politica».

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

«Credo ci voglia anzitutto un impegno da parte dei regolatori internazionali. L’Unione Europea si sta interrogando sul tema. Margrethe Vestager, commissario alla concorrenza della Commissione Ue, ha preso decisioni importanti negli ultimi anni sull’abuso di posizione dominante di Google, Facebook e altri colossi del web. Ora potrebbe essere utile la nascita di organi che dialoghino con questi giganti affinché, da un controllo sulle quote di mercato, si arrivi a un confronto su come veicolare le informazioni e dare, per esempio, preminenza a quelle che hanno una fonte attendibile».

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo significa controllo che, a sua volta, è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure” imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

«Mi sento di assolvere quasi in toto la categoria. Certo, è vero, oggi viviamo in un contesto di censure determinate da ciò che i più percepiscono come politicamente corretto. Non accorgersene, semmai, è fonte di colpevolezza».

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella del “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

«In Cina, per la verità, i primi presentatori robotici al tg stanno già provando a rubarmi il mestiere, spero di non essere sostituita da uno di loro! Battute a parte, il “robot journalism” diventerà una minaccia se smetteremo di farci interrogare dai fatti e se non capiremo che la realtà è un’occasione per diventare più umani».

Secondo lei esiste una, anche remota, possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione – possa scomparire per essere sostituito da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone, magari in maniera “meccanica” o, comunque, con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

«Mi auguro di no e torno al tema toccato sopra. Abbiamo bisogno di dare un giudizio sulle cose che accadono, come uomini prima ancora che come giornalisti, altrimenti la nostra resterà sempre una reazione e non ci attrezzeremo mai per prendere posizione. Allora, vincerà davvero chi farà il titolo sensazionale o la sparerà più grossa e questo potrà farlo anche un algoritmo al posto nostro».

Secondo lei come leggeremo le notizie tra 5 anni?

«Non so immaginare i supporti nuovi e i device che avremo a disposizione per leggere e informarci. Credo però che i temi di questa intervista saranno ancora più attuali. Il nostro lavoro è cambiato, sta evolvendo e, spesso, è sottovalutato. Spero non venga snaturato».

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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