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Politica

Media e terrorismo (1): la lezione delle Br

Iniziamo oggi la pubblicazione dell’intervento di Luca Rigoni contenuto in “Comprendere il terrorismo” a cura di Ranieri Razzanti (Ed. Pacini Giuridica) su gentile concessione dell’editore.

Chi ha attraversato gli anni di piombo sa bene che uno dei punti nodali della sfida del terrorismo e della risposta dello Stato fu l’utilizzo, da entrambe le parti, della comunicazione. Tutto o quasi è cambiato, da allora, ma è forse utile partire da lì per comprendere dove siamo ora, perlomeno sul fronte mediatico, e per comprendere la radicale trasformazione dei media e, di conseguenza, del terrorismo (non viceversa, perché senza comunicazione il terrorismo non avrebbe senso, sarebbe atto di violenza gratuita, vendetta senza eco).

Cosa mettere in pagina, che immagini diffondere, cosa tagliare e cosa no (il tema spinoso della censura), che rilevanza dare a rivendicazioni comunicati video, come commentare, da chi eventualmente far commentare: queste le domande che, di fronte a un attentato, ci si pone subito, a livello editoriale.

Il caso Moro – caso politico, caso internazionale, caso privato – smosse e smuove le coscienze, anche perché a troppi quesiti non c’è ancora risposta; e lo fa tuttora, nella data di un anniversario – i quarant’anni – tondo ma sbrecciato, irrisolto. Allora cosa si fece? Cosa si pubblicò e cosa no? Che linee editoriali si scelsero? Si discusse a caldo e a lungo, così come si fa ora davanti a un attacco di Daesh, in un universo che pare, ed è, lontanissimo: dalle colonne, anche quelle di piombo, al web, dai Tg Rai a YouTube e a telegram.

Partiamo allora dal racconto in prima persona di un testimone centrale, perché fondatore e direttore del quotidiano che, fra l’altro, il presidente Dc teneva in mano nella foto dal covo o da uno dei covi del rapimento: “La Repubblica”. Questo di Eugenio Scalfari non è certo l’unico racconto, anzi, ma ci permette di entrare nel cuore di una scelta editoriale allora fondamentale (la fermezza) e contemporaneamente, si direbbe nell’italiano di oggi, divisiva.

IL RACCONTO DI SCALFARI

«In tutti quei mesi e anzi quegli anni, ‘La Repubblica’ mantenne un atteggiamento di grande chiarezza, che si può sintetizzare così: dare tutte le notizie senza domandarsi se giovassero o non giovassero a questa o a quella tesi; pubblicare i testi delle Br nella misura in cui li giudicavano utili per far capire alla pubblica opinione quanto stava accadendo; non pubblicare assolutamente nulla se la pubblicazione ci fosse stata imposta come prezzo da pagare ai terroristi; dare voce a una linea di commento che difendesse con vigore le garanzie processuali dei brigatisti tratti in arresto e combattere risolutamente ogni ‘imbarbarimento’ della legislazione penale che non fosse strettamente limitato nel tempo e nelle modalità; opporsi ad ogni negoziato con i terroristi che potesse elevarli al rango di controparte e di ‘combattenti politici’. Inizialmente pubblicammo le fotografie delle vittime trasmesse alla stampa dalle Br; poi, a un certo punto, decidemmo di non farlo più. Questa doppia linea, insieme di garantismo e di non-trattativa, fu il nostro specifico contributo».

Eugenio Scalfari racconta in “La sera andavamo in via Veneto” (Mondadori, 1986) una scelta editoriale che lasciò il segno. Lo fa nei termini di un direttore-editore, nel quadro di quella che allora era la discussione: pubblicare, non pubblicare, fornire o non fornire un megafono, e cosa pubblicare o non pubblicare, cosa includere o escludere, i pro e i contro: una scelta giornalistica, discussa e discutibile, come lo fu; una scelta civile, una scelta pubblica e una scelta privata.

Il privato, appunto. Scalfari lo affronterà anni dopo, in un altro suo libro “L’uomo che non credeva in Dio” (Einaudi, 2008). I ricordi riaffiorano. Ma non riguardano solo il caso Moro. C’è un’altra terribile vicenda, dove la scelta del direttore-editore può essere voto di vita o di morte. Pubblicare, come esigono i terroristi, non pubblicare? Una vita dipende da questa decisione. È quella del giudice D’Urso.

LA LINEA DELLA FERMEZZA

È il gennaio del 1981. Le Br, in cambio della vita dell’ostaggio, pretendono di far uscire su un gruppo di quotidiani – ‘Repubblica’ era quello più in vista – i loro comunicati, decidendone anche corpo tipografico e posizione in pagina. I centralini del quotidiano furono tempestati di telefonate che chiedevano la pubblicazione. I radicali, Pannella e Sciascia, in testa. Altre testate accondiscesero. La famiglia del magistrato aveva fatto visita a Scalfari, disperata, chiedendo di pubblicare. La decisione fu un ‘no’.

«Dissi che se avessimo ottemperato sarebbe stata la fine della libertà di stampa: i terroristi avrebbero potuto rapire una persona qualunque in qualunque momento confiscando di fatto il giornale e imponendogli la pubblicazione di qualunque cosa avessero voluto. Risposero con le lacrime agli occhi che si trattava della vita o della morte d’una persona. Non dissero altro, restarono davanti a me muti e piangenti. Anch’io ero senza parole. (…) Il comitato di redazione e i colleghi più influenti passarono quelle ore con me e i pareri erano divisi. Alla fine, mi dissero che la decisione non poteva essere che mia, e loro, quale che fosse stata, l’avrebbero condivisa. Ero troppo agitato e convulso per scegliere una posizione, m’era rimasto negli occhi quel coro dolente della famiglia dell’ostaggio e le parole dette dalla moglie: ‘È in gioco la vita di una persona’. Sentivo il bisogno di uscire, di recuperare calma e coraggio, ciò che stava accadendo mi sembrava irreale, un incubo che tardava a finire. Salii in macchina e guidai verso il vecchio ghetto, al portico d’Ottavia, salii le scale d’una casa amica dove avevo avvertito che sarei andato. Chiesi d’esser lasciato solo, entrai in una stanza che ben conoscevo piena di libri e dischi, scelsi la Settima di Beethoven e misi il ‘pick-up’ sul secondo movimento, l’Allegretto, uno dei brani più toccanti che conosca. Alzai il volume e mi stesi bocconi per terra a occhi chiusi, per svuotarmi l’anima dall’angoscia che l’opprimeva. La musica finì. Mi rialzai, tornai al giornale. Decisi che non avremmo pubblicato il documento. Feci informare la famiglia dell’ostaggio. Presi sonno verso l’alba e mi svegliai tardi. Era già arrivata la notizia che l’ostaggio era stato liberato».

È una narrazione, lo si vede bene, che sa intrecciare pubblico e privato, professione e autobiografia intima. Al di là della scelta presa, una linea della fermezza oggi fortemente messa in discussione (molto meno allora, era ipermaggioritaria), è una narrazione che inevitabilmente mette al centro ciò che in quegli anni, e anche molto dopo a venire, nel processo comunicativo, nella trasmissione dei fatti, delle idee, delle immagini, delle emozioni, delle opinioni, delle analisi, era centrale: il giornale. O, potremmo aggiungere, il telegiornale. O i giornali radio. Ma nella tv o nelle radio di Stato, le scelte dovevano essere certo meno personali, e meno angoscianti, o responsabilizzanti. Non solo il metro, ma anche i centimetri se non i millimetri, lì erano quelli misurati dalla politica.

Il punto però non è questo. È che giornali di diverso colore politico e appartenenza culturale, e la televisione pubblica, perlomeno in Italia, erano il filtro che doveva essere attraversato per arrivare alla grande massa del pubblico. Attraversato, come abbiamo visto, anche mettendo in gioco la vita di un uomo. Un filtro potente, inevitabile, nelle mani di editori, direttori, capiredattori, giornalisti ed editorialisti che potevano decidere quando e come aprire o chiudere il rubinetto dell’informazione: una informazione filtrata, appunto.

(1 – Continua)

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