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Dieci domande

Barbara Carfagna: «La velocità ha cambiato le carte in tavola a chi fa informazione»

Gira che ti rigira, prima o poi a Barbara Carfagna dovevamo arrivare. Sì, perché un’inchiesta come la nostra, su presente e futuro del giornalismo nell’era del Web, non avrebbe potuto fare veramente a meno delle opinioni di una delle maggiori divulgatrici di temi legati all’ormai avvenuta digitalizzazione della nostra società, con la più autorevole trasmissione televisiva sul tema, di cui oltre a essere presentatrice è anche appassionata autrice: Codice: la vita è digitale, con cui ha avuto il grande merito di portare sul piccolo schermo temi centrali ma poco “mainstream” come blockchain, criptovalute, cyebersecurity, big data, privacy e digital disruption. Format grazie al quale ha ricevuto il Premio Arete’ nel 2018 e, quest’anno, il Premio Mariagrazia Cutuli per «la capacità di investigare e divulgare la complessità del mondo digitale».

Ormai, scrivere un articolo giornalistico significa, spesso, dover trovare qualcosa che non solo possa essere interessante per il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questo, a suo avviso, limita o esalta la capacità di scelta del giornalista?

Stiamo vivendo l’era della  complessità. Paradossalmente, proprio mentre trasmettere questa complessità alle masse diventa più arduo, i mediatori (politici, giornalisti…) sono costretti ad abdicare la loro autorevolezza a regole di comunicazione imposte dalle piattaforme. Il risultato è che si raggiungono più persone ma non si riesce a creare in loro consapevolezza: stiamo diventando tutti adolescenti, in apprendimento continuo, usiamo un linguaggio semplice e accattivante: da ragazzini. Di conseguenza non veniamo più rispettati come autorevoli mediatori. Tuttavia anche restare nell’illusione di poterci comportare come prima è pericoloso: è diminuita la capacità di concentrazione, la soglia dell’attenzione si è abbassata; il messaggio coerente e poco “sexy” raggiunge pochissimi, si regalano lettori se si è giornalisti, elettori se si è politici. E’ una crisi profonda in cui siamo meno liberi e da cui si esce solo sperimentando nuove soluzioni e nuovi linguaggi. Noi della Rai abbiamo già vissuto in piccolo una fase analoga. Ricordo un discorso di Giovanni Minoli che vide nell’introduzione dell’auditel, nell’essere costretti ad assecondare la massa invece di formarla, la fine della televisione educativa e di qualità che aveva ‘fatto l’Italia’ fino a quel momento.

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

Non è la soluzione ma senz’altro una delle possibili risposte al quesito precedente; valida però per chi – pochi – vuole mantenere la conoscenza, la presenza mentale e la coscienza. Adatta a coloro che vogliono incidere nella società attraverso, ad esempio, un voto consapevole e informato. Chi legge solo titoli, tweet e brevi voterà “di pancia” soprattutto ai referendum su temi ambientali o politiche digitali. Magari inconsapevolmente guidato dagli algoritmi invece che da una riflessione. Potrebbe inoltre pentirsi in seguito, come pare sia accaduto con la Brexit.

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno fake news vada ben oltre le classiche “bufale” e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

Il coraggio di essere impopolari. Quando ci fu il caso Stamina mi opposi a pubblicare determinati servizi. Anche sui social persi centinaia di follower. Lì per lì non fu piacevole ed ebbi molti dubbi. Mi fidai di Luca Pani, all’epoca a capo di AIFA, e degli scienziati Bianco e Cattaneo. Sulla base di quegli insulti, quelle frizioni in redazione e quelle minacce molti mesi dopo avrei costruito parte della mia reputazione; ma io sono una singola persona. Le testate oggi possono permettersi di perdere copie e lettori fino al giorno in cui la verità viene a galla? Stimo molto il governo finlandese per aver obbligato i cittadini a corsi di formazione su Fake News e intelligenza artificiale

Come detto, in Italia così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

Non si può parlare di specifici errori degli operatori del settore (che sono comunque tanti, a partire dall’eccessiva prossimità con la politica) senza considerare l’intero contesto, che è mutato troppo rapidamente. La velocità ha cambiato le carte in tavola riducendo a zero il tempo delle verifiche sulle notizie, ad esempio. Questo è niente rispetto a quello che vedremo d’ora in poi. L’errore resta sempre ricercare il consenso immediato, il click in più che porta la pubblicità, sempre più ridotta rispetto a quella venduta dalla piattaforme.

Al di là di quello che ritiene qualche politico ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismo non sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso tutto italiano di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigente possa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei – costruire una nuova e autentica connessione tra popolo e classi dirigenti?

Un primo passo potrebbe essere imporre regole diverse ai social, disegnarle con loro prima di consentirgli di espandersi nelle nazioni. Poi, rendere i cittadini coscienti dell’importanza della proprietà dei dati personali, che ora vengono regalati alle piattaforme che poi li utilizzano in modo commerciale obbligando anche la comunicazione politica a diventare un game. Infine, costringere la politica a strutturare sistemi distribuiti. Considero la mia missione giornalistica di questi anni infondere consapevolezza – anche in una classe dirigente politica pericolosamente ignara – sull’importanza della gestione dei dati personali. I cittadini devono capire che potrebbero scambiarli e venderli e questo cambierebbe le carte in tavola. Il rischio per la democrazia viene prima di tutto dal possesso dei nostri dati da parte di un pugno di piattaforme. Nei paesi non democratici per definizione, infatti, il possesso dei dati è dei governi.

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del Web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

La creazione di sistemi distribuiti, la creazione di consapevolezza su proprietà e gestione dei dati, L’imposizione ai social di regole condivise ad esempio dall’UE.

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo significa controllo, che a sua volta è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure”  imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

Sarebbe una colpa se tutti i giornalisti fossero ben informati. Purtroppo non è così. Come per i politici, molti non saprebbero comprendere di cosa stiamo parlando, come potrebbero informare? La fretta nel processare una mole ingestibile di informazioni a cui ci costringe l’informazione h 24 e multipiattaforma ci rende anche più ignoranti. Oggi sono i filosofi etici che stanno scendendo in campo, assumendosi responsabilità un tempo dei giornalisti.

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

Una grande opportunità, se ben strutturata, per ovviare al problema della risposta precedente: invece di provocare licenziamenti, i robot dovrebbero liberare tempo libero e risorse per la formazione e la ricerca di soluzioni.

Secondo lei esiste una anche remota possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione – possa scomparire per essere sostituito da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone magari in maniera “meccanica”, o comunque con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

Per una parte delle notizie potrebbe essere una soluzione: quelle sui risultati sportivi, sul maltempo, sul traffico. Questo, ripeto, libererebbe energie per l’informazione sui temi complessi, sia che lo si voglia chiamare ancora giornalismo che se gli si volesse dare un’altra definizione. Scomparendo i giornali, il termine potrebbe anche cambiare.

Come leggeremo le notizie tra 5 anni?

Dipende tutto dall’applicazione che si farà della realtà aumentata e della realtà virtuale.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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