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POLITICA USA

I dem scaldano i motori, la vittoria di Biden è tutt’altro che scontata

I due giorni di dibattito in casa democratica ci hanno consegnato un quadro in completa evoluzione.

Se da un lato la senatrice californiana Kamala Harris ha distrutto la concorrenza, registrando un +8 nei sondaggi, anche l’ex segretario all’HUD, Julian Castro, ha sorpreso tutti nella prima notte, dimostrando che nulla è ancora scritto; dall’altro lato, va registrato un -9 per l’ex vicepresidente Joe  Biden, il quale è ancora in testa nei sondaggi ma si vede braccato proprio dalla Harris e dalla Warren. Biden, per impensierire la presidenza targata Donald Trump deve fare di più. Questo quadro potrebbe favorire Bernie Sanders ma il senatore del Vermont non ha sfruttato il palcoscenico durante il primo giro di sondaggi. Menzione a parte merita Beto O’Rourke. Il golden boy texano, dopo aver perso contro Ted Cruz per duecentomila voti, durante le ultime midterm, la sfida per il seggio in Senato, oggi, ha trasformato la sua campagna per la presidenza in un suicidio. Politicamente parlando il dibattito in casa democratica ha sancito la sua esclusione dalla corsa e la fine delle sue chance di vittoria.

È dunque vero che i dibattiti democratici sono stati vinti da Donald Trump? Sì, è vero. Il presidente, comodamente seduto sul suo divano nella casa più famosa del mondo, tra un tweet e un “boring!”, ha assistito allo spettacolo che sperava di vedere. Mentre i suoi avversari si sferravano attacchi a vicenda, lui preparava l’incontro con Kim Jong-un, passato alla storia – che la si pensi come Trump o no poco importa – perché è stato lui il primo presidente a varcare il 38º parallelo.

In questo quadro, a spaventare ancora di più i democratici, è una carta elettorale che descrive una situazione ai limiti del possibile. Nel 2016, Donald Trump vinse le elezioni con 306 grandi elettori – divenuti 304 dopo il voto del collegio elettorale – contro i 232 della Clinton – divenuti 227 sempre dopo il voto del collegio elettorale – perdendo, però, il voto popolare di circa tre milioni di voti.

Il quadro qui disegnato, vede Trump vincere le elezioni con 270 grandi elettori contro i 268 del suo sfidante democratico, perdendo nuovamente il voto popolare di circa cinque milioni di voti.

I democratici, rispetto al 2016, conquisterebbero nuovamente Michigan e Pennsylvania, aumenterebbero il loro vantaggio in California e ridurrebbero la distanza dai repubblicani in Texas; Trump, invece, continuerebbe a vincere, seppur di poco, in Arizona, Florida e Wisconsin, andando addirittura ad aumentare il vantaggio in Ohio.

Curiosa, invece, sarebbe l’ipotesi del 269 pari. Ciò potrebbe avvenire qualora un grande elettore del collegio del Maine o del Nebraska si colorasse di blu al posto del rosso repubblicano. In tale caso, il presidente sarebbe eletto dalla Camera dei Rappresentanti, mentre il vicepresidente sarebbe scelto dal Senato. La Camera, però, adotta un sistema di votazione particolare, in cui ogni delegazione statale sceglie al suo interno un candidato e ha diritto a un solo voto. Si tratta di un sistema che potrebbe penalizzare gli stati con un numero di grandi elettori elevato. Il Senato, in cui ogni stato ha una delegazione identica, vota invece normalmente.

Nella recente storia elettorale americana, ancora traumatizzata dall’election night del 2000, non sono mancati i colpi di scena e le vittorie al fotofinish, non solo a livello statale. Se escludiamo il 1824, il 1876 e il 1888, è proprio nel 2000 che si registra per Al Gore la vittoria nel voto popolare e la sconfitta per un solo stato, la Florida, con annesse vicende legali che hanno portato alla più veloce pronuncia da parte della Corte Suprema in materia. Anche nel 2004, il bis di George W. Bush – che vinse il voto popolare di circa tre milioni di voti – è stato deciso dai 27 GE della Florida, consegnando il soprannome di swing state al The sunshine state. A livello scaramantico, invece, è l’Ohio a giocare un ruolo decisivo. Il Buckeye state, rinominato “Mother of Presidents” – poiché  ha mandato alla Casa Bianca sette suoi figli nativi – per ben 34 volte su 38, dalla guerra civile al 2016, ha votato il presidente poi eletto. La defezione più nota? 1960. Richard Nixon vince in Ohio e perde la presidenza contro John Kennedy.

I democratici, i quali ancora ricordano la vittoria a valanga di Lyndon Jonhson contro Goldwater (1964), sanno che vincendo nelle contee di Cleveland e Cincinnati hanno un piede e mezzo nella White House; i repubblicani, invece, hanno dalla loro un dato statistico spaventoso: tutti i presidenti del GOP hanno sempre vinto in Ohio.

La corsa per la Casa Bianca è iniziata, e oggi, più che mai, esiste una sola regola, famosa quanto Frank Underwood: “o cacci o vieni cacciato”.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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