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POLITICA USA

Ipotesi ticket Bush-Rubio e i (tanti) dubbi su Hillary Clinton

Se i democratici piangono, i repubblicani non ridono. Potremmo riassumere così, stando alle forze attualmente in campo, la lunga sfida delle primarie che ci accompagnerà alle elezioni presidenziali che, nel 2016, designeranno il successore di Barak Obama alla Casa Bianca. Già, perché è molto probabile che a contendersi la vittoria finale saranno due candidati specularmente deboli come Hillary Rodham Clinton e Jeb Bush. D’altronde, se dalle parti di Capitol Street faticano ancora parecchio a mandare giù il rospo per la (seconda) candidatura dell’ex First Lady, negli ambienti repubblicani si respira un’aria di rassegnazione al fatto che tanto, alla fine, le primarie le vincerà il fratello e figlio rispettivamente dei Presidenti numero 43 e 41 degli Stati Uniti.

Insomma, all’orizzonte si profila uno scontro tra le due casate più potenti degli Usa, ovvero una Clinton contro un Bush, anzi, pardon, i Clinton contro i Bush. Una vera e propria saga, ormai. Ad onor del vero va osservato che, al netto del giudizio politico sul suo operato, dal punto di vista del messaggio di cambiamento si tratta di un bel salto all’indietro, rispetto al vento di novità che soffiava nelle vele della candidatura di Obama.

Nella fattispecie, nonostante una campagna certamente ben studiata, gli ostacoli sulla strada di Hillary sono sostanzialmente noti, e vanno dai tanti scheletri nell’armadio di famiglia, ai suoi fallimenti in veste di Segretario di Stato (vedi alle voci Libia e scandalo e-mail), ai chiaroscuri sulla provenienza delle – assai cospicue – donazioni percepite dalla Clinton Foundation, per arrivare alle sue posizioni in politica economica, notoriamente avverse al ceto medio in ragione di un’azione di “redistribuzione del reddito” smaccatamente di sinistra. Vi dice qualcosa? Scommetto di sì, volendo sintetizzare al massimo potremmo tradurre il concetto in due parole: più tasse. Se a tutto questo aggiungiamo che è alla soglia dei settanta, che non risulti propriamente simpatica e che, come ha dimostrato nel corso della campagna del 2008 poi persa contro Obama, quando è sotto pressione ci sono buone possibilità che vada in tilt, il quadro delle preoccupazioni democratiche è bello che fatto.

Detto della Clinton, veniamo ai repubblicani che, oltre a Jeb – acronimo di John Ellis Bush – vedono attualmente in corsa altri due figli d’arte: uno legittimo, il libertario Rand Paul, figlio di Ron, e l’altro acquisito, cioè Marco Rubio, figlioccio politico di Jeb Bush, che ne è stato il vero e proprio mentore, sostenendolo nella sua candidatura al Senato nel 2010. Marco, figlio di modesti immigrati cubani, ha però deciso di recidere il cordone ombelicale lanciandosi in una candidatura all’insegna del ricambio generazionale e della rottura con i centri di potere che hanno governato quasi ininterrottamente l’America dagli anni novanta a oggi.

Ecco, lanciando lo sguardo oltre le primarie del GOP, appare del tutto evidente che una figura come quella di Marco Rubio sarebbe certamente utile a Bush per diverse ragioni. La prima è che sono entrambi della Florida, stato storicamente fondamentale per la vittoria finale alle elezioni; la seconda riguarda due target di americani sui quali chiunque coltivi l’ambizione di conquistare la Casa Bianca dovrà necessariamente puntare, ovvero i giovani e gli ispanici. Tuttavia, mentre su questi ultimi Bush, anche e sopratutto grazie alla moglie Columba, che è messicana, pare essere messo piuttosto bene, sull’elettorato giovane non si può certo dire che abbia il medesimo appeal del suo ex delfino. Badate bene, in questo caso il problema non è tanto la carta d’identità, quanto il peso di un cognome che, volenti o nolenti, richiama al passato come, del resto, quello della sua probabile avversaria. Va da se, allora, che tra i due futuri contendenti, quello che riuscirà a convincere il numero maggiore di giovani persuadendoli dal non disertare le urne, avrà buone chance di portare a casa la partita.

Il figliol prodigo che torna nella casa del padre, il sogno americano incarnato alla perfezione dalla storia personale di Rubio, il fatto che per i conservatori duri e puri il cognome Bush sia una certezza ed i voti di giovani, ispanici e Florida: gli ingredienti per la buona riuscita del ticket Bush – Rubio sembrerebbero esserci davvero tutti, ma c’è un ma, e nemmeno di poco conto.

Si tratta del 12o emendamento della Costituzione americana, che impone agli elettori che votano per eleggere il presidente e il suo vice, di votare per almeno un candidato che non sia residente nel medesimo stato dell’elettore. Caso vuole che l’ultimo precedente risalga al 2000 e riguardi il ticket composto dal fratello maggiore di Jeb, George W., e Dick Cheney che, per l’occasione, dovette trasferirsi dal Texas al Wyoming. Tornando all’oggi la differenza sta nel fatto che Jeb Bush, pur essendo nato in Texas, abbia piantato da svariati lustri le sue radici a Miami (è stato governatore della Florida), che è anche il maggiore bacino elettorale dello stesso Rubio che, difatti, si è rimboccato le maniche per guadagnare consensi anche al di fuori del suo stato.

Tecnicamente, per gli elettori della Florida, esisterebbe anche la possibilità del voto disgiunto ma, visto e considerato che equivarrebbe a un’erosione di consensi in uno stato decisivo, escludo che sia nel novero delle cose possibili. Ergo, realisticamente parlando, l’unico modo per concretizzare un ticket certamente ben assortito e per molti aspetti financo affascinante come quello composto da Bush e Rubio, sarebbe che il primo decida di riportare la sua residenza in Texas.

Le alternative? Jeb potrebbe decidere – come del resto fece Romney – di scegliere il suo candidato vice pescando dal mazzo degli altri candidati alla nomination repubblicana o, in alternativa, anticipare i tempi precettando il governatore del Wisconsin Scott Walker, sempre che, invece, non voglia giocarsi la carta della diversità di genere, optando per l’ex Ceo di Hewlett-Packard Carly Fiorina, già responsabile della campagna presidenziale del Senatore John McCain (poi sconfitto da Obama nel 2008), e considerata tra le donne più influenti del GOP.

Detto questo, la storia delle elezioni americane c’insegna che, come la trama di ogni film di Hollywood che si rispetti, il sentiero che porta a Washington è lungo e sopratutto disseminato da una miriade di variabili e colpi di scena in grado di mutare l’intero scenario da un momento all’altro.

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è consulente di marketing strategico, keynote speaker e docente di branding e marketing digitale all’International Academy of Tourism and Hospitality. È stato inviato di «Vanity Fair» negli Stati Uniti per seguire Donald Trump, a Kiev per la campagna elettorale di Zelensky, collabora con diversi media ed è autore di 10 libri. Nel 2016, per promuovere la versione inglese de Il Predestinato ha inventato la sua finta candidatura alle primarie repubblicane sotto le mentite spoglie del protagonista del romanzo, il giovane Congressman Alex Anderson. Una case history di cui si sono occupati i principali network di tutto il mondo.

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